Racconto senza chiaro di luna


Si finiva sempre per parlare di lei, dell’Ines, anche molti anni dopo, le rare volte che ci si trovava tutte insieme. Di solito succedeva  il pomeriggio di Santo Stefano. Oppure  il giorno dei morti, di ritorno dal cimitero. Più spesso, al matrimonio di qualche nipote lontana, dopo che gli sposi avevano tagliato la torta, e tutti cominciavano a ballare.
Allora,  rimaste sole attorno alla tavola, le caviglie libere finalmente dai cinturini delle scarpe, le sorelle facevano gli ultimi commenti sui fiori nella sala, sulla torta avanzata, e su quanto sarebbe durato l’entusiasmo d’amore della nuova coppia.
Era generalmente quando il discorso prendeva quella piega che una di loro nominava l’Ines. Le altre abbassavano la voce, qualcuna faceva finta di niente o cercava di cambiare discorso, sono cose vecchie, cosa vai a tirar fuori. Ma non c’era verso, si finiva sempre per parlare di quella storia. E ce n’erano delle cose da dire, e da ricordare.
Ognuno poteva dire la sua,  su al paese, chi c’era in  quegli anni almeno. Sulla loro famiglia,  sull’Ines, e  sul Fausto naturalmente.
Che poi, passi per il Fausto, ma  se c’era una da cui non aspettarsi quello che era successo, era proprio lei, chi se lo sarebbe immaginato, con tutte le belle figlie che c’erano allora,. A quel punto di solito le sorelle tiravano su gli occhi e si spiavano senza parere, facendo paragoni sugli sgarbi dei guai e delle vite.

L’Ines non era  mai stata  una bellezza. Sarà che era nata che la madre era già un po’ in là con gli anni. Due ne aveva fatte quella volta, ma l’altra bambina era morta subito, e l’Ines l’avevano salvata per un pelo. Non avevano mai capito se era una fortuna o una disgrazia, vedersela crescere davanti secca come una saracca, con quei colori strani che nessuno aveva mai visto nella loro famiglia e neanche in paese.
Ha gli occhi bianchi, aveva detto la levatrice avvicinandola ancora gocciolante di sangue alla finestra. Poi, l’Annina la sorella più grande se lo ricordava bene, le aveva rovesciato le mani e i piedi e l’aveva portata in fretta  fuori dalla stanza.  Mamma era troppo sfinita per badarci, e loro  impensierite che ci fosse un’altra bocca da riempire. Papà, già all’osteria a far festa,  chissà quando si sarebbe rivisto a casa.

Dopo l’Ines per fortuna non ci furono altri figli, e lei crebbe così, in punta di piedi,  senza tante attenzioni, nessuno aveva tempo e pensieri da dedicarle. Ma non sembrava patirne, pensavano le sorelle grandi, guardando un po’ inquiete il celeste dei suoi occhi e i capelli quasi bianchi, come strinati dal sole. Era fatta a suo modo, non aveva mai fame o sonno,  non faceva le tigne solite dei bambini, era come se sapesse da subito di essere arrivata troppo tardi, e che alla vita che le era capitata doveva abituarsi e basta, senza storie.

Eh sì che di storie ce n’erano nella casa dove stavano da bambine, su quello spuntone  di montagna secco di polvere in estate e di gelo d’inverno. Un groviglio di pietre tenute insieme dalla miseria. In cima alla salita la chiesa e il cimitero, per le preghiere senza risposta delle donne; all’inizio del paese l’osteria, dove gli uomini sgravavano le angherie della vita almeno fino al  giorno dopo.
Urla, pianti, male parole  per una fetta di polenta, uno straccio da mettersi addosso, un paio di scarpe. Brutte cose, a raccontarle oggi non ci si crede, si ripetevano in seguito le sorelle carezzando con gli occhi il  ben di dio che le circondava. E spostavano la mente in fretta da quei giorni di fatica e fame, chine ancora bambine sul sudore di quel brandello di terra di nessuno, che nessuno reclamava perché non aveva niente da dare. Le ore afose  dell’estate, il buio dei pomeriggi di novembre, i giorni di festa senza allegria, a ingoiare la rabbia e l’amarezza per tutto quello che non avevano e che non potevano essere.
L’Ines, lei cresceva senza un perchè come una pianta selvatica, sempre coperta dalla testa ai piedi anche in estate, attenta al fuoco del sole sul velo trasparente della pelle. A volte L’Ines, lei cresceva senza un perchè come una pianta selvatica, sempre coperta dalla testa ai piedi anche in estate, attenta al fuoco del sole sul velo trasparente della pelle.capitava che da bambini, intanto che giocavano tutti insieme in strada,  qualcuno le corresse dietro, per sollevarle  tutti quegli stracci, e vedere come era fatta sotto. Ma lei scappava, ed era così svelta che nessuno riusciva mai a prenderla. Neanche il Fausto, che era il più alto di tutti, perché lei correva ancora più forte quando se lo vedeva dietro. Per un bel po’ se ne stava nascosta chissà dove, e poi tornava a casa,  senza fretta, con quei capelli pallidi che le facevano ombra alle guance. Raccogliti i capelli, sfacciata, le sibilava la madre quando la vedeva sull’uscio, e rimettiti in ordine. Dove sei stata fino adesso?

L’Ines le sorrideva, forse si aspettava una carezza o magari una sberla che le facesse sentire per una volta come era la mano di mamma sulla pelle.  Ma lei si era già voltata sul suo lavoro, senza neanche aspettare una risposta, e a carezzarla o menarla non ci pensava neanche. Quella figlia senza colori le dava un’angustia strana, non la toccava volentieri, già faceva fatica a tenerci gli occhi sopra. A volte le succedeva di pensare a quell’altra, che era morta senza che ci fosse stato il tempo di battezzarla. Non gliel’avevano neanche fatta vedere, istupidita com’era da tutto quel sangue che le era corso fuori. Forse lei non era così. Era normale, come tutti gli altri suoi figli, venuti al mondo senza bisogno della levatrice, con i capelli scuri e  le guance rotonde.
Un giorno o l’altro doveva decidersi e parlare con don Fermo, di tutti i sogni che le avevano rovinato il sonno di quei mesi, prima che le gemelle nascessero. Anche altre cose doveva raccontargli, che se le teneva dentro e si vergognava,  perché lo sapeva che ci sono giorni che certe cose non si fanno, è peccato, ma vallo a spiegare all’uomo quando è pieno di vino e di istinto. E che non si può andare contro natura, poi le cose vanno a finir male, guarda un po’ cos’era successo a queste figlie, una presa dal demonio e l’altra, che anche se era qui, dava  tanto da pensare.

Così l’Ines non si decise mai a rivelare alla madre e a nessuno dove stesse tutto quel tempo nascosta. Chissà se al Fausto lo disse in seguito, o se lui lo sapeva già da subito, quello rimase un dubbio che  le sorelle non riuscirono mai a sciogliere.

Intanto il tempo si mangiava tutto, e l’Ines tutt’a un tratto smise di andare in chiesa. La madre  ne fece una tragedia da strapparsi i capelli, anche quello doveva patire nella vita, una figlia che non si confessa e la domenica va a zonzo come una vagabonda senza Dio. E dire che don Fermo l’aveva ben messa in guardia, quando, sotterrato il marito,  si era finalmente decisa a raccontargli per filo e per segno com’era andata quella volta che avevano fatto le gemelle. Lui aveva fatto un mucchio di domande  e poi si era raccomandato di mandargliela subito, nel primo pomeriggio, in sacrestia, prima che arrivassero i monelli dell’oratorio, e che ci avrebbe pensato lui a sistemare quell’anima in pericolo.  
L’Ines non aveva chiesto niente, e si era avviata nel silenzio del dopopranzo,  coperta da uno scialle che le nascondeva anche i capelli. E così aveva fatto nei giorni seguenti. Ma quando arrivò la messa della domenica, si tolse lo scialle e disse che  sarebbe rimasta a casa. Anzi non sarebbe mai più entrata in chiesa. Non ci fu verso di cavarne altro. E a niente valsero le lacrime e le suppliche della madre. Le sorelle pensarono che se lei non voleva era inutile insistere, anzi furono perfino sollevate di risparmiarsi quella passerella con l’Ines per il paese,  con gli sguardi della gente che più il tempo passava e più si faceva meraviglia e si dava di gomito. Neanche una parola le dissero, e la sera, prima di mettersi a dormire, l’Annina la più grande, fece finta di non vederli  i graffi vivi sul collo e sul petto della sorella, e se ne guardò dal parlarne con alcuno.

C’era un’altra cosa che in casa non si sapevano spiegare, ed era la faccenda dei libri. A scuola c’erano andate tutte il minimo indispensabile per non fermarsi alla croce come i vecchi, ma era finita lì. La maestra una volta si era arrampicata fino a casa loro e, seduta alla tavola di cucina, aveva provato a dire che sì, l’Ines era intelligente e aveva passione per lo studio, ed era un peccato che smettesse così presto, e se ci fosse stato il modo... Poi, un po’ confusa per via che la madre se ne stava zitta  e l’Ines, in piedi vicino al camino non tirava su gli occhi da terra,  e anche per la miseria che si era trovata davanti, si era alzata e senza più insistere era andata alla porta. Sulla tavola però aveva lasciato un po’ di libri. Per te, aveva detto cercandole gli occhi sotto il velo dei capelli, prima di voltarsi e sparire in strada.
Così adesso c’erano anche i libri a riempirle la testa. Come se non fosse già abbastanza strana di suo. Li doveva  aver letti e riletti chissà quante volte, da come erano consumati. La madre la guardava con sospetto, quasi spaurita, seguire attenta quelle file di segni misteriosi. Le sorelle grandi, prese dalla curiosità, avevano voluto sapere qualcosa di quello che c’era lì dentro, e allora una sera lei, nell’ultima luce del sole,  aveva cominciato a leggere. Per essere belle erano belle le parole che le uscivano dalla bocca. Parlavano d’amore, e loro erano tutte in quell’età che si comincia a pensarci, e a guardarsi intorno. Basta sciocchezze, era intervenuta la madre turbata dalle guance accese delle figlie e dai pensieri nuovi che sentiva nell’aria, e tu metti via, aveva aggiunto rivolta all’Ines. Era già difficile tirar su cinque figlie da sola, e tenerle  sulla terra, lontane dalle bugie dei libri. L’Ines aveva ubbidito senza protestare. Aveva smesso di andare a scuola, lavorava in casa e fuori, non parlava se non c’era bisogno. Ma aveva continuato a leggere e rileggere i suoi libri, tutte le volte che poteva.
In paese la gente si faceva un mucchio di domande. Intanto, con tutti quegli stracci che si buttava addosso e per via che  non parlava mai di sé, non riuscivano a capire se l’Ines fosse ancora una bambina, e quando sarebbe diventata una donna. In ogni modo la consideravano brutta, vicino alle sorelle, senza i ricci folti della Franca, o il corpo rotondo e le gambe tornite dell’Annina,  il sorriso pieno di promesse della Bruna e la scioltezza  di spirito della Delia. Troppo magra, con quegli occhi che le mangiavano la faccia e quei capelli da zingara vecchia. Oltretutto senza una lira di dote, così era l’Ines, lo sapevano tutti. Come le sue sorelle, peraltro. Solo che loro almeno erano belle, e anzi qualcuno aveva cominciato presto ad approfittarsene. Anche di questo parlava la gente, sempre più spesso, intanto che  lei diventava  ragazza, e durante la festa del paese rimaneva appoggiata a un tronco o seduta in disparte, a guardare gli altri che passeggiavano  sottobraccio o scambiavano parole allegre. Quelli che da bambini la rincorrevano nei prati, ora le lanciavano sguardi noncuranti, e le preferivano le altre, quelle normali. Il Fausto era ancora il più alto e il più bello, con tutte le ragazze che se lo mangiavano con gli occhi, gli passavano davanti con le labbra dipinte  e facevano a gara per farsi invitare a ballare.
La madre chiudeva un occhio su quello che succedeva, e ringraziava dentro di sé quando una delle più grandi tornava a casa con un salame sotto il braccio, qualche uovo fresco, una bottiglia di vino e perché no, un bel vestito nuovo a fiori vivaci da fare invidia alle vicine. L’Ines era sicuro che le sarebbe rimasta lì per la vecchiaia, ed era già qualcosa, visto che altro non ci si poteva aspettare da lei.

Tutto invece cominciò a cambiare in fretta quel pomeriggio di giugno che si  presentò alla porta senza chiedere permesso l’Elvira, la madre del Fausto. Aveva un pezzo di carta in mano e una storia da non credere sulla bocca. La sputò fuori tutta d’un fiato, con la rabbia che le macchiava le guance e la voce. Parlò solo lei, continuando a sventolare quel foglio sgualcito. E poi se ne andò, dopo averlo sbattuto con malagrazia sotto il naso di tutte loro.
Fuori faceva già scuro e le sorelle dell’Ines  erano ancora lì intorno alla tavola della cucina con la madre, a masticare l’urlata dell’Elvira, incerte se ci fosse da crederci. Con le novità degli ultimi tempi, per giunta. Cose grosse.

Per prima cosa il Fausto si era fidanzato. Con tutti i crismi, il pranzo e la promessa. Per l’anello aveva rimediato con quello della madre,  che tanto erano anni che non riusciva più ad infilarci il dito. Sulla faccenda come al solito c’erano molte voci perché il Fausto lui diceva poco, era più bravo a far chiacchierare gli altri. Della fidanzata, si sapeva solo che si chiamava Lia e stava in un paese giù a valle. I genitori erano mezzadri nelle campagne dei conti Farnè, a quattrini non se la passavano male e tenevano quella figlia come una reliquia, nessuno l’aveva mai vista a feste o in giro con quelli della sua età. Il Fausto però doveva pur aver trovato il modo per vederlo e farselo piacere perché in quattro e quattr’otto si era impuntata e l’aveva voluto a tutti i costi. I genitori all’inizio avevano storto un po’ il naso ma poi si erano convinti, e quando lui la portò in paese per farla conoscere all’Elvira si capì anche il perché. La ragazza non era più tanto ragazza e forse non era stata una gran fatica tenerla da reliquia, in ogni modo non doveva esserci stata la fila.
L’Elvira una volta tanto non cercò parole da dire. E’vero, la sposa non era come se la aspettava. E allora? Meglio che abbassassero la cresta, tutti e tre,  e la ringraziassero invece, per quel figlio fatto a regola d’arte che gli metteva davanti. E che glielo trattassero con le mani della festa, che certe fortune passano una volta sola nella vita. Il Fausto si sistemava alla grande, questo contava, e avrebbe fatto star bene anche tutte loro, un buon matrimonio per le sorelle e una vecchiaia senza pensieri per lei. E che nessuno si azzardasse a mettersi in mezzo, con chiacchiere o altro.

***

Passavano le ore ma a casa dell’Ines nessuna aveva un pensiero per la cena, le sorelle e la madre. Avevano cominciato a farsi qualche domanda, lì mezze al buio, senza sapere bene da dove cominciare perché in tutta quella storia ancora non si raccapezzavano. A così pochi giorni dalle nozze del Fausto. Con tutto già pronto, il vestito, gli addobbi della chiesa, gli zuccherini per gli invitati.  La famiglia di lei non si era fatta guardare dietro, chissà da quanto avevano da parte i soldi per quel giorno.
Senza contare il viaggio. Quella era la cosa più grossa di tutte. Appena maritati partivano tutti, il Fausto, sua moglie e tutta la famiglia di lei. C’erano stati dei guai grossi con le terre dei conti Farnè, per colpa della politica, ed era finita che molti mezzadri avevano perso tutto, casa e lavoro, roba da ridursi all’elemosina.  Ma i fratelli di lei erano ammanicati fin dall’inizio con quelli del Fascio,  qualcuno ci aveva messo la parola giusta e così gli avevano dato casa e  podere nuovi di zecca giù in Bassitalia, dove prima c’era solo acqua ferma e malattie, e adesso invece dopo la bonifica dicevano che crescesse terra buona da coltivare, alberi mai visti prima e perfino città con strade e negozi. Il tempo di sistemarsi e il Fausto avrebbe fatto andar giù anche la madre e le sorelle, così l’avrebbero finita  per sempre con quella vita senza cuore. L’Elvira da mesi non viveva che per  questo, e solo così si era rassegnata a veder partire quel figlio, che piuttosto avrebbe preferito che le tagliassero la mano destra.
E adesso, cosa voleva dire quel foglio, nascosto nel cassetto del Fausto? L’Annina, la più grande, cominciava a capire come stavano le cose, ma non voleva essere lei la prima a parlare, tanta era la rabbia che aveva addosso. Già era dura da sopportare quella contadina vestita di nuovo che se lo portava via per due lire e un pezzo di terra, lasciandole tutte con un pugno di mosche. E dire che loro, pensava guardando di sbieco le sorelle, non si erano mai tirate indietro quando c’era da divertirsi un po’, e mica per soldi o altro, solo così, perché tutte ci avevano sperato un po’ di riuscire a mettere le mani sul Fausto. E invece,  che storia si doveva sentire.
Tenetele stretta la sottana, che quella ha il demonio dentro, erano state le ultime urla dell’Elvira, prima di sbattersi dietro la porta. Proprio così le aveva lasciate, che fuori era sera fatta.
E quella gatta morta dell’Ines che ancora non tornava. Ma dov’è che si era cacciata?

La aspettarono tutta  notte, quella notte vuota, senza neanche un lembo di luna nel cielo. A leggere e rileggere a memoria quelle righe scritte a mano, parole che avevano già sentito dalla voce della sorella un tramonto di tanto tempo prima, eppure se ne erano così riempite da non scordarsele più.
Ma cosa c’entrava il Fausto con i libri dell’Ines, e con le sue stramberie? Si conoscevano da sempre, come tutti in paese, ma lui ormai era un uomo fatto, e lei una bambinetta senza età. Per quanto, ragionava fra sé l’Annina, col tempo bisogna fare i conti tutti, e anche sua sorella era lì per finire i sedici anni.
Le altre non ce la facevano più a stare zitte, la Delia poi che ne aveva sempre per tutti era già passata alle parole grosse, che era impossibile che il Fausto si fosse perso con l’Ines,  ed era tutta  gelosia dell’Elvira, che se non fosse stato per l’odore dei soldi che le tappava il naso quel figlio se lo sarebbe tenuto con lei a casa,  anche nel letto magari. La Franca buttava acqua sul fuoco, chissà cosa si era immaginata l’Elvira con quel biglietto, che se l’era fatto leggere da don Fermo e ci aveva costruito su un romanzo, non voleva dir niente, magari quella sciocchina dell’Ines si era fatta anche lei qualche idea sul Fausto, ma lui figurarsi, e lì la Franca si ricacciava in gola certi batticuori, il solletico dell’erba sulle gambe, le parole di lui e le cose che gli piacevano, meglio non pensarci più. La madre, con le dita aggrappate ai capelli, seguitava a dare la colpa ai libri e al non andare più in chiesa, e a quella figlia sbagliata ancora prima di venire al mondo, che era meglio se la seppellivano nella stessa cassa con l’altra. Già la gente non era mai stanca di sparlare dietro e la teneva lontana più che poteva, e se questa storia del biglietto nascosto fra le mutande del Fausto veniva fuori, c’era da morire di vergogna. Lui dopo maritato chi lo vedeva più, e quell’oca smorta dell’Ines lì a far ridere il paese, sulle sue spalle, rovinata per niente.
L’Annina si alzò all’improvviso, afferrò la lampada a petrolio e attraversò la cucina. Voglio dare un’occhiata qui dentro, disse spalancando con malagrazia la tenda che nascondeva il letto della sorella e le sue cose. Le altre girarono la testa incuriosite. La madre non fece neanche quello. Guardava fissa fuori dalla finestra, quel cielo cieco da far paura.

Le sorelle anni dopo preferivano saltare i ricordi di quella brutta notte senza sonno, di quanto frugarono e buttarono per aria e ne dissero e ne pensarono,  per trovare una spiegazione. Si raccontavano volentieri invece di quando, più avanti, una dopo l’altra cominciarono a lavorare in città, a servizio nelle case dei signori, ci mangiavano e dormivano anche, e le domeniche pomeriggio a passeggio e a ballare, i nuovi filarini e la miseria un po’ più lontana. Erano stati anni belli, finiti in fretta, poi erano arrivati i mariti e i figli,  la guerra, i sacrifici, insomma le cose della vita. Ed eccoci qui, concludevano tenendo ben nascosti dentro i pentimenti che le prendevano ogni tanto, le rabbie rimaste, i dubbi che non si erano mai levate.  E anche la curiosità, che affetto vero non era mai stato, di sapere dell’Ines, la sorella più piccola e strana, e rivederla anche, un giorno o l’altro, dopo tutto quel tempo. Se era ancora al mondo.
La madre invece continuò sempre a pensarci, e anche più di prima, lei che non si mosse mai dal paese fino al giorno che la chiusero nella cassa, e furono le vicine a farlo, perché successe all’improvviso,  una sera non si presentò al rosario e la trovarono bocconi dietro la stufa della cucina,  si trattò solo di chiuderle gli occhi e sistemare per la veglia. Le figlie arrivarono appena poterono. L’Ines lei non c’era già più da tempo, e chissà se lo imparò e quando.

Il Fausto si maritò il giorno fissato, la domenica dell’Ascensione. C’era tutto il paese, anche le sorelle dell’Ines, obbligate ad andare per non far venire idee alla gente. Lei, dissero che era a letto con la febbre alta, per il gran caldo.
Ma l’Ines non era malata.  A casa la rividero solo il giorno dopo, quando il Fausto era già sul treno per la Bassitalia con la sua nuova famiglia. E l’Elvira  si era messa a letto, sfinita fino all’ultimo dal pensiero che lo sposalizio andasse per aria, e che la fidanzata non ne volesse più sapere, se solo  imparava che il Fausto era tornato  appena in tempo per infilarsi il vestito ed entrare in chiesa quella mattina, dopo due giorni e due notti che non si faceva vedere. In casa non sapevano più a che santo votarsi, in giro non potevano chiedere, neanche agli amici e meno che mai alla famiglia dell’Ines,  guai se si fosse saputo, roba da fare annullare tutto, e addio fortuna e benessere.
Con la scusa del caldo, l’Ines non si rivide in paese per un bel po’, fino a quando almeno non le sparirono i segni di tutte le botte che prese da sua madre, perché raccontasse del biglietto, del Fausto, e dove si era nascosta, con chi, e per fare cosa,  tre giorni e tre notti. La madre si spellò le mani, alle sorelle si seccò la gola a insistere per sapere. Lei non era abituata alle domande e rimase zitta, lasciandole tutte con i loro sospetti sporchi e non abbassò mai quegli occhi celesti che sembravano più lucidi e vivi quel giorno.

***

Ma la prima volta che mise piede fuori casa, tempo dopo, quando la vide con i capelli raccolti in ordine sulla nuca e un vecchio vestito dell’Annina con il pizzo intorno al collo, e non sembrava più la stessa anche nel camminare, la madre si tolse ogni dubbio e decise in fretta il da farsi. Poco dopo, con il capo coperto dallo scialle e in tasca quei pochi soldi che le mandavano le figlie dalla città, bussava alla porta della sacrestia, che quella era l’ora che la perpetua preparava il pranzo.
L’Ines accettò per marito Gusto il ciabattino,  che aveva non si sa quanti anni più di lei e gli mancava una gamba fin dalla prima guerra, solo a condizione di sposarsi nel paese di lui, senza don Fermo a benedirli. Nella casa della madre rimasero anche dopo che arrivò la bimba. L’Ines  quella mattina fece tutto senza l’aiuto di nessuno e chiamò sua figlia  Alba, perché era nata insieme al sole, e del sole non doveva mai avere paura. Le insegnò anche a essere bella, a ridere con gli occhi, a non nascondersi. La gente, dopo la meraviglia iniziale per quel matrimonio così in fretta e furia e lontano dal paese, col tempo si abituò a vederla l’Ines, vestita come si deve, che rispondeva ai saluti senza abbassare la testa, faceva spesa al mercato, passeggiava per mano parlando fitto a quella figlia che aveva preso i suoi occhi celesti come laghi, mentre  i capelli erano scuri e ricci  sulla schiena. Gusto era solo al mondo e non gli sembrava vero di vedersi attorno una donna tutta per sé e una bambina che entrava correndo nella bottega,  stava lì a guardarlo lavorare, e intanto gli raccontava un mucchio di cose. La suocera poi lo trattò sempre come un re, per ringraziarlo di averle tirate fuori senza tante storie dalla vergogna, ed essersi preso quella figlia senza giudizio.
Che alla gente si poteva anche darla a bere ma lei era sempre dell’idea che qualcosa di storto ci fosse nell’Ines. Se no, che bisogno aveva certe notti col buio fondo di uscire di nascosto, e rimanere fuori fino all’alba, senza che mai, fin da bambina, si fosse saputo dove andava a nascondersi. Quella vecchia storia, vera o falsa che fosse, grazie a Dio nessuno, anche se c’era quella bambina bella come una stella, poteva più tirarla fuori: si faceva coraggio la madre, ma una mano le strizzava il cuore, e non sapeva perché, mentre cambiava posizione nel letto con gli occhi spalancati, e le ore non passavano mai.

L’ultima notte quando la sentì uscire di casa, si alzò dal letto, andò alla finestra e guardò fuori. L’Ines correva sicura come da bambina nel buio. La seguì con lo sguardo finchè ci riuscì, ma la vista da vecchia  le faceva brutti scherzi. Che strano, le sembrava addirittura che l’Ines non fosse sola giù in strada, che ci fosse qualcuno che correva con lei, ma non era sicura. Volle  correrle dietro e chiamarla per capire finalmente. Cercò almeno di aprire la finestra e invece dovette tornarsene a letto,  gli occhi  le si chiudevano per forza e le gambe non la tenevano su.  

Poi fu di nuovo giovane e con gli occhi buoni. C’era l’Ines che correva svelta fuori dal paese, avvolta dai suoi vecchi stracci e con i capelli sparsi nel buio. Allungò il passo dietro di lei, sempre più in fretta, e quando finalmente riuscì ad arrivarle alle spalle e la poteva quasi toccare,  solo allora si accorse dell’altra, che era con lei, nel ritaglio improvviso della luna.  Correvano fianco a fianco, le due Ines, tenendosi strette per mano, così vicine che a tratti sembravano una sola. Ma dell’altra non le riuscì di vedere la faccia, il colore dei capelli e gli occhi, perché tutt’a un tratto la luna si era girata nel cielo e lei era tornata vecchia e pesante sulle gambe.
Non aveva più fiato e dovette fermarsi in mezzo alla strada, ma continuò a seguirle con gli occhi tutte e due, sempre più lontane e insieme. Era la prima volta che poteva farlo e anche l’ultima, e dire che tutta la vita l’aveva portata nel cuore quell’altra Ines che non aveva mai visto, e per quel  regalo doveva dire grazie alla luna nascosta nel ventre di quella notte.

Si svegliò tardi per il silenzio quella mattina, e con in testa quel sogno che non la lasciò più. Non trovò l’Ines nel letto, né sua figlia. Gusto sembrava che dormisse, col respiro di un bambino,  sotto il lenzuolo fermo.

Ci fu chi disse che l’Ines e la bambina se ne erano andate a piedi e sole dal paese, quella notte. Qualcuno raccontò invece che c’era il Fausto che  le aspettava alla Casa Buia  e che le aveva portate via tutte e due su una gran macchina lucida. E altri aggiunsero che si erano sempre incontrati lì, lui e l’Ines fin da ragazzi, alla Casa Buia, dove nessuno si azzardava nemmeno ad avvicinarsi, per le  brutte storie di streghe e spiriti che si nascondevano sotto quelle pietre. Molti si domandarono come avesse fatto l’Ines a tenersi stretta il Fausto per tutto quel tempo, e cosa lo avesse fatto tornare da lei, gran signore come era diventato. Poi le voci del paese non le fermò più nessuno, chi non si spiegava il fatto che a Gusto gli fosse venuto un colpo nel sonno proprio quella notte, chi tirava fuori tutte le stranezze dell’Ines fin da quando era nata, che non andava in chiesa, e forse non c’era mai stato neanche il matrimonio, e che cosa nascondeva sotto tutti quegli stracci che si metteva, un corpo da vergognarsi, le magie dei libri, o quella figlia troppo bella che nessuno aveva visto nascere, o il fuoco del demonio, come aveva detto tanto tempo prima l’Elvira e  come ripetè con sicurezza don Fermo. Qualcuno giurò di sapere  che l’Ines sotto le vesti teneva qualcosa di segreto, bellissimo, e vivo, che tirava fuori solo per fare ammattire il Fausto, là alla Casa Buia, nelle notti senza luna. E che era per quello, solo per quello che lui non aveva resistito lontano da lei ed era tornato a prenderla per sempre.

Comunque fossero andate le cose, le sorelle ormai vecchie a quel punto dovevano smettere di raccontare, perché dopo quella notte dell’Ines, della bambina e del Fausto non si seppe mai più niente. La gente continuò lo stesso a parlare di loro, e a dire la sua, nelle sere a veglia, fuori dalla chiesa o ai tavoli dell’osteria, ma alla fine rimasero solo chiacchiere di vecchi, e fantasie e sogni vissuti dagli altri, come spesso finiscono per essere i ricordi.