ZERU ZERU, INVISIBILI D’AFRICA

ZERU ZERU, INVISIBILI D’AFRICA
Quando la povertà e l’ignoranza lasciano il passo alla superstizione
Mostra fotografica di Claudio Simunno

bambini africani albini - foto di Claudio Simunno

Nascere albino in Africa è un’esclusione di appartenenza. Ricordate la storia di Calimero, il pulcino nero? Calimero è un pulcino bianco, è solo sporco. Un africano albino è bianco e basta, per sempre.  Quando in un villaggio d’Africa, da genitori neri nasce un bimbo bianco, se non c’è un perché chiaro, spiegato, si insinuano strane idee. E, quando all’ignoranza si aggiungono la povertà e la sete di facili ricchezze, le strane idee assumono velocemente i colori della stregoneria, che alimenta persecuzioni e atti di violenza inaudita (stupri, amputazioni, uccisioni). Questi eventi, di tanto in tanto, occupano le pagine della cronaca, ricordandoci dell’esistenza di una popolazione africana bianca, non esigua nonostante la rarità mondiale dell’albinismo. In alcune regioni africane, infatti, si arriva a 1/2.000-1/5.000 nati, rispetto a un’incidenza mondiale di 1/17.000.

Uno dei punti su cui si stanno focalizzando diverse Associazioni, sia locali che internazionali, attraverso campagne di informazione,  è sradicare dal tessuto socio-culturale il significato, positivo o negativo, che tale condizione ha assunto, significato che, nell’uno e nell’altro caso, pone una persona albina in una condizione di profondo disagio psicologico e sociale, togliendole la possibilità di vivere una vita libera e dignitosa. Spesso, la vita, fin da subito, è chiamata ad una persecuzione quasi certa, per la preziosità delle parti di un corpo bianco; vivo o morto, non fa differenza.

Claudio Simunno è entrato,  occhi attenti e macchina fotografica al collo, in un orfanotrofio dello Shinyanga, dove vivono bambini albini, allontanati dai loro villaggi di origine perché in pericolo di vita.

<< Da fotografo cerco sempre di fotografare quello che altre persone non vedono.
Qualche anno fa, durante un viaggio in Kenya, ho vissuto per un mese in un villaggio africano vicino Malindi, dove ho conosciuto due persone albine: un bambino di pochi anni e un ragazzo che lavorava in un macello di animali nel villaggio. Lo scorso anno cercavo un progetto che mi desse lo stimolo a partire, una storia che non fosse legata ai soliti Masai, Samburu, ecc…. E  … mi sono venuti in mente i due volti bianchi incontrati in Kenya. Digitando su Google, la parola “albini Africa”, ho visto che le informazioni erano scarse. Allora ho chiesto ad alcuni amici se avevano mai sentito parlare di albini africani. “NO!” è stata la loro risposta! Ho capito che quello era il mio viaggio.

Sono partito.
Ho vissuto a Shinyanga  nel Nord della Tanzania, in una zona appena fuori il centro abitato, Buanghija, per poco più di venti giorni, in una casa in campagna, a circa 600 mt dall’orfanotrofio, ospitato da Henry e la sua famiglia - la moglie, tre figli, una nipote, due ragazze sordomute e due ragazze albine provenienti dall’orfanotrofio -.
Henry fa parte della Tanzania Albino Charity, associazione che opera da pochi anni in questa zona fornendo cibo, materassi, cuscini, creme solari e soldi all’orfanotrofio e alle persone albine che vivono nei villaggi.

Tutti i giorni, mattina e pomeriggio, andavo all’orfanotrofio, per giocare e fotografare.

Nei fine settimana andavo nei villaggi vicini - Kishapu, Lyamadati e tutto il distretto di Shinyanga -, distanti anche 80-100 km, per visitare e censire gli albini che vivono nelle loro famiglie e nei luoghi in cui sono nati. Andavo con Henry e un ragazzo albino responsabile dell’associazione albini di Shinyanga.

L’orfanotrofio ospita bambini affetti da diverse patologie, in particolare: albinismo, cecità, sordomutismo e malattie del sangue. Più del 70% dei bambini albini arriva da Bariadi, una zona della Tanzania, dove i casi di amputazione per riti di stregoneria sono molto frequenti.
L’orfanotrofio è governativo. Il governo della Tanzania non ha nessuna intenzione di spendere soldi, si limita a garantire loro la sopravvivenza, che consiste fondamentalmente nel cibarli.

I Maestri osservano quello che succede intorno senza intervenire, né per esigenze fisiologiche (se un bambino si fa i bisogni addosso, nessuno lo pulisce), né per problematiche di convivenza  (se i bambini si azzuffano tra loro, nessuno li separa).

Una stanza fa da aula per i più piccoli. Una Maestra insegna loro a leggere e a scrivere. I più grandi frequentano una scuola a poche decine di metri dall’orfanotrofio, una scuola di basso livello, frequentata anche da altri ragazzi che vivono nella zona.

Un’INFERMIERA visita, giornalmente, i bambini, dando loro le medicine, in base al tipo di malattia e gravità.

Sporcizia e degrado sono presenti in ogni angolo.
I bambini sono sporchi, mangiano per terra, dormono in ambienti fatiscenti. Un odore  nauseabondo aleggia in ogni dove, pesante negli ambienti chiusi. Per i bambini che ci vivono è la normalità, e, con il passare dei giorni, era diventata anche la mia normalità. Non mancano  momenti in cui giocano, ridono e si divertono, come tutti i bambini del Mondo. Il quotidiano scorre lento…>>.

Un orfanotrofio, un luogo che accoglie e protegge bambini africani albini. Un luogo che salva la vita, ma non assolve alle esigenze primarie. Le condizioni igienico sanitarie sono precarie, ma qui sono protetti, sopravvivono al “nemico nero”. Che futuro offre un presente così disperato? Un bambino a cui non viene data nessuna arma di riscatto, né psicologica, né sociale, né culturale, che adulto sarà? Avrà salva la vita, forse, ma dentro sarà comunque macerato, violato, distrutto, morto ancor prima di morire.

Questi bimbi sono reali, non sono fantasmi. Fantasma è la loro vita. Il “non colore”, nella terra dei colori, viene punito con un’esistenza ai margini, un destino assegnato loro dallo stesso governo, che, non curandosene, ne ufficializza l’inutilità sociale.

Albinismo News - Intervista a cura di Rosa Pellegrino
Claudio Simunno - Mostra fotografica dal 26 luglio al 31 luglio 2016