Letture

Una come me

“Come pietre nel fiume”. Ursula Hegi. Universale Economica Feltrinelli.

UNA LETTURA TERAPEUTICA
Consiglio di leggere  "Come pietre nel fiume" di Ursula Hegi.
(si trova anche nelle biblioteche pubbliche e, per chi ci vede poco,  presso il Centro Internazionale del Libro Parlato di Feltre).
E’ il libro più bello che io conosca sulla consapevolezza della diversità e la sua  difficile elaborazione.
E' ambientato in una piccola città della Germania al tempo dell’ascesa di Hitler.
La protagonista, Trudi, deve fare i conti con  il suo aspetto fisico, che  è diverso da quello di tutti gli altri: è infatti nana (in tedesco “zwerg”, parola che non viene tradotta).
Non bisogna dimenticare che le anomalie ereditarie erano considerate dai nazisti una grave offesa alla purezza della razza, e come tale venivano “punite”. Il vissuto della diversità  viene espresso dalla narratrice in un modo profondo  ed efficace.



Trudi seduta lungo al riva del fiume
"TRUDI" by Melusinda


Incontro con Pia  - L’isola
Indimenticabile è per Trudi l’incontro con la prima “donna zwerg” della sua vita:  Pia, artista di circo. Per avvicinarsi a lei la ragazzina si offre come volontaria in un gioco di prestigio. Pia la presenta così:
Sembra che abbiamo un volontario. Viene dall’isola magica da cui vengo anch’io. L’isola della gente piccola, dove sono tutti della nostra altezza…
 
Trudi capisce subito che questo incontro è fondamentale per la sua crescita, e la sera stessa va ad incontrare Pia, per farle tutte le domande che non ha mai potuto fare a nessuno.
 
Pia indossava una vestaglia di seta  ricamata e non parve sorpresa di vederla.
“Non avevo mai incontrato nessuno come me.” Trudi lo disse lentamente. E poi lo disse ancora: “Non avevo mai incontrato nessuno come me.”
“Oh, ma noi siamo dappertutto…in luoghi diversi…
Sono sempre soli. Nei miei viaggi, non li cerco mai. Sono loro che trovano me.”  I suoi occhi erano esattamente all’altezza di quelli di Trudi “Vogliono sapere degli altri. Proprio come te.”
“Quell’isola…?”
“E’ per tutti noi. Sta a te sognare come arrivarci.”
“Perché non possiamo stare tutti nello stesso luogo?”
“Ci siamo. Si chiama terra.”
“No, non volevo dire quello. Lo sapete.”
“Sarebbe meglio?”
“Non sarei sola.”
“Non lo sei.”
“In questo paese, lo sono.”
Pia annuì, pensierosa: “Quando ho la sensazione di essere l’unica, immagino centinaia di persone come me… in tutto il mondo, che si sentono isolate, e allora mi sento unita a loro.” Indicò una poltroncina imbottita. “Siediti se vuoi.”
Quando Trudi si sedette, notò che i piedi toccavano terra e non rimanevano sospesi nel vuoto. Sorrise fra sé, promettendosi che in quel mondo dove i sedili dei tram  e i banchi dei negozi erano sempre troppo alti, da quel momento nella sua casa lei avrebbe avuto mobili fatti a misura della sua altezza.  Gli altri bambini erano cresciuti fino ad adattarsi al mobilio dei loro genitori,  mentre per lei le cose erano rimaste troppo alte. […]
“Ne avete conosciuto cento come noi?”
“Cento e quattro”
“Allora li contate?”
“E come non potrei?”
Stordita dalla gioia, Trudi riusciva a sentirli – tutti e centoquattro -  vicini a lei come se fossero stati lì nella roulotte, e in quell’istante capì che per Pia  essere una Zwerg era normale, perfino bello. Per Pia le braccia lunghe erano brutte, le gambe lunghe instabili. Le persone alte avevano un aspetto strano, erano troppo lontane dalla terra con la loro andatura traballante. Trudi guardò Pia che la stava osservando, in silenzio, come se capisse quello che lei pensava, e si sentì unita alla terra, molto più che se avesse avuto le gambe lunghe. [...]
“Non provate mai il desiderio di guardare dritto in faccia le persone?”
“Invece di guardare sempre dal basso verso l’alto e di vedere il loro mento e i peli del loro naso?...
“Ma allora vedrò solo le loro pance, le ginocchia, le cinture...”
“I loro culi grassi. ..Ragazza mia…” Pia rise fino a farsi venire le lacrime agli occhi. “Ma non per molto ancora.  Dimmi, che cosa fai se qualcuno ti parla a voce molto bassa? “
“Mi avvicino.”
“Giusto.”
Trudi attese, ma Pia rimase a guardarla  senza dire un’altra parola, con un’espressione divertita.
“Volete dire…”
“Prova.”
“Si chineranno verso di me?”
“Non tutti. Ma molti sì. A patto che ti ricordi di non guardare in alto.”
“Ci proverò. Grazie”    [...]  “Voglio venire con voi.”
“Sei ancora una bambina.”
“Avrò quattordici anni l’anno prossimo.”
 Pia annuì. “… anche se ti portassi con me, non servirebbe a cancellare in te la sensazione di essere la sola. Nessuno se non tu può cambiare questo. Così.” Strinse le corte braccia intorno al corpo. Cullandosi avanti e indietro, sorrise.
“ Un giorno te lo ricorderai,”  promise la donna Zwerg.


Per saperne di più:
 
Ursula Hegi

anteprima libro

Azzurrina: una fiaba

"Azzurrina". Angela Nanetti. Ed. Einaudi ragazzi


E’ la mia ultima scoperta: una fiaba che ha come protagonista una bambina albina!
Sono molto contenta di farvela conoscere, in modo che possiate regalarla ai bambini e anche ai loro amici e compagni di classe, perchè contiene un messaggio profondo sulla diversità.
La bambina è Azzurrina: informazioni su di lei, fra storia e leggenda, si possono trovare  nel nostro sito -  Azzurrina Malatesta - e su Wikipedia.
Nella fiaba, la storia finisce bene. E’ una bambina troppo bianca, che fa paura. Ma, per sua madre, è diversa dalle altre bambine solo perché è più bella ... e ha doni speciali e meravigliosi.
Il libro è: "Azzurrina" di Angela Nanetti. Ed. Einaudi ragazzi
Ci sono belle illustrazioni. Costa 7 Euro: cosa volete di più?


Per saperne di più:
Copertina libro: Angela Nanetti

La leggenda di Azzurrina

Azzurrina Malatesta

Azzurrina e la visitatrice

Azzurrina Malatesta

 "Azzurrina". Wikipedia


Guendalina (? 1370 – 21 giugno 1375), meglio conosciuta col soprannome di Azzurrina, fu la figlia di un certo Ugolinuccio, signore di Montebello (RN).
Solitamente padre e figlia sono indicati col cognome Malatesta, famiglia signorile di Rimini che allora controllava anche Montebello, ma non si hanno fonti storiche che sanciscano tale parentela. Scomparsa prematuramente alimenta una leggenda molto conosciuta in Romagna.
La leggenda di Azzurrina sarebbe stata tramandata oralmente per tre secoli, presumibilmente venendo di volta in volta distorta, ampliata, abbellita. Solo nel 600 un parroco della zona la mise per iscritto assieme ad altre leggende e storie popolari della Val Marecchia.
Guendalina era albina. La superstizione popolare del tempo collegava l’albinismo con eventi di natura magica se non diabolica. Per questo il padre aveva deciso di farla sempre scortare da un paio di guardie e non la faceva mai uscire di casa per proteggerla dalle dicerie e dal pregiudizio popolare.
La madre le tingeva ripetutamente i capelli con pigmenti di natura vegetale estremamente volatili. Questi, complice la scarsa capacità dei capelli albini di trattenere il pigmento, avevano dato alla bimba riflessi azzurri che ne originarono il soprannome di Azzurrina.
La leggenda narra che il 21 giugno del 1375, nel giorno del solstizio d’estate, Azzurrina giocava nel castello di Montebello con un palla di stracci mentre fuori infuriava un temporale. Era vigilata da due armigeri di nome Domenico e Ruggero. Secondo il resoconto delle guardie la bambina inseguì la palla caduta all’interno della ghiacciaia sotterranea. Avendo sentito un urlo le guardie accorsero nel locale entrando dall’unico ingresso ma non trovarono traccia della bambina. Il suo corpo non venne più ritrovato.
La leggenda vuole che il fantasma della bambina sia rimasto intrappolato nel castello e che torni a farsi sentire nel solstizio d’estate di ogni anno lustro (cioè che finisce per 0 e 5).
 - Azzurrina. Wikipedia -


Per saperne di più:
ritratto di Azzurrina Malatesta
"Il fantasma di Montebello" by mitiromagna.it
Azzurrina: una fiaba

Azzurrina e la visitatrice

La leggenda di Azzurrina


La pagina bianca

"Ultimi racconti". Karen Blixen. Biblioteca Adelphi.


Karen Blixen è la più celebre scrittrice di racconti del ‘900. Ha scritto “La mia Africa” e “Il pranzo di Babette”, da cui sono stati tratti  films  di successo. La sua biografia è affascinante: tornata in Europa dopo avere perso tutto: il marito, l’amante, la salute, la ricchezza, si dedicò interamente alla scrittura  e, nei suoi racconti, visse una seconda vita. “La pagina bianca” è un racconto perfetto, citato a modello per gli aspiranti scrittori di tutto il mondo.Io lo propongo in primo luogo per la sua bellezza, in seconda istanza perchè presenta sotto una luce diversa e interessante la simbologia della bianchezza.
 


Accanto all’antica porta della città sedeva una vecchia color caffè e velata di nero, che si guadagnava da vivere raccontando storie.Diceva: << Volete una storia, mia buona signora, signor mio? Quante storie ho narrate, una più di mille, da quando per la prima volta lasciai che i giovanotti raccontassero a me le loro favole di una rosa rossa, due levigati boccioli di giglio, e quattro serici serpenti flessuosi dall’abbraccio mortale. Fu la madre di mia madre, la bellezza dagli occhi neri, l’amante dai molti amplessi, fu lei che alla fine – vizza come una mela d’inverno e rannicchiata sotto la clemenza del velo – si prese la briga di insegnarmi l’arte del narrare. A lei l’aveva insegnata la madre di sua madre, ed erano entrambe narratrici migliori di me. Ma questo, ormai, non ha più importanza, perché per la gente loro e io siamo diventate una persona sola, e io sono immensamente rispettata perché racconto storie da duecento anni >>.A questo punto, se è ben pagata e di buon umore, continua.<< Con mia nonna >> diceva  << ho fatto una scuola dura. “Sii fedele alla tua storia” mi ripeteva la vecchia strega. “Sii eternamente, inflessibilmente fedele alla tua storia”. “Perché nonna?” le domandavo. “E ti devo anche dire i motivi, sfrontata?” gridava lei. “E tu pretenderesti di fare la narratrice! Eppure devi diventarlo, e io ti dirò quei motivi! Ascolta, dunque: Dove il narratore è fedele, eternamente, inflessibilmente fedele alla sua storia, là alla parlerà il silenzio. Dove la storia è stata tradita, il silenzio non è che vuoto. Ma noi, i fedeli, subito dopo aver pronunciato l’ultima parola, udremo la voce del silenzio. Che una ragazzina mocciosa lo capisca o no”.<< Chi, allora, >> ella continua << racconta una storia ancora più bella delle nostre? Il silenzio. E dove si legge una storia più profonda di quelle scritte sulla pagina più squisitamente stampata del più prezioso di tutti i libri? Sulla pagina bianca. Quando una penna regale e coraggiosa, nel momento della sua più alta ispirazione, ha finito di scrivere la sua storia con l’inchiostro più raro…dove, in quel momento, si può leggere un racconto ancora più profondo, più soave, più allegro e più crudele di quello? Sulla pagina bianca >>.Per un po’ la vecchia strega non dice nulla, ma ridacchia tra sé e biascica con la bocca sdentata.<< Noi, >> dice infine << noi vecchie che raccontiamo storie, conosciamo la storia della pagina bianca. Ma siamo un po’ restie a raccontarla, perché tra i profani essa potrebbe danneggiare la nostra reputazione. Tuttavia, farò un’eccezione per voi, mia dolce e bella signora e mio signore dal cuore generoso. A voi la racconterò >>.Su tra le azzurre montagne del Portogallo c’è un vecchio convento di suore dell’ordine delle Carmelitane, che è un ordine illustre e severo. Nei tempi antichi il convento era ricco, le suore erano tutte dame della nobiltà, e vi avvenivano miracoli. Ma attraverso i secoli le dame altolocate persero interesse ai digiuni e alle preghiere, i grandi beni dotali affluirono sempre più scarsi nel tesoro del convento, e oggi le poche umili e poverissime suore vivono in un’ala soltanto del vasto edificio fatiscente, che par quasi voler diventare tutt’uno con le rocce grigie. Tuttavia esse formano ancora una congregazione gaia e attiva. Trovano grande diletto nelle loro sante meditazioni, e gioiose e solerti si dedicano a quel compito specialissimo che una volta, molto, molto tempo fa, valse al convento un raro e strano privilegio: coltivano il lino più pregiato e ne fanno il tessuto più fine del Portogallo.Manzi bianchi come il latte e dagli occhi mansueti arano il lungo campo sotto il convento, e mani verginali indurite dal lavoro e col terriccio sotto le unghie  spargono abilmente i semi. Al tempo in cui il campo di lino fiorisce, tutta la valle diventa color azzurro cielo, proprio il colore del grembiule che la vergine benedetta indossò per andare a prendere le uova nel pollaio di sant’Anna, un istante prima che l’Arcangelo Gabriele, con vigorosi colpi d’ala, scendesse sulla soglia della casa – mentre su su in alto una colomba, con le piume del collo gonfie e le ali frementi, stava ferma nel cielo come una piccola, limpida stella d’argento. Durante quel mese, per molte miglia tutt’intorno gli abitanti del villaggio alzano gli occhi verso il campo di lino e si domandano l’un l’altro: << Guarda, che il convento si sia sollevato su nel cielo? O che siano state le nostre buone sorelle a tirar giù il cielo sino a loro? >>.Più tardi, venuto il momento, il lino viene colto, scotolato e cardato, poi si fila la fibra sottile e la si tesse, e alla fine il tessuto viene steso sull’erba a candeggiare: lo si bagna più e più volte, finchè si potrebbe credere che intorno ai muri del convento sia caduta la neve. Tutto questo lavoro viene eseguito con accuratezza e devozione ed è accompagnato da aspersioni e litanie che sono il segreto del convento. E proprio per questo il lino, accumulato in grosse balle sulle groppe di asinelli grigi e spedito al di là del cancello del convento giù giù lungo il declivio che porta alle cittadine del piano, per questo quel lino è liscio, delicato e liliale come il mio piedino quando, a quattordici anni, lo avevo appena lavato nel ruscello per andare a un ballo nel villaggio.La diligenza, miei cari signori, è una bella cosa, e anche la religione è una bella cosa, ma il primo embrione di una storia verrà da un luogo mistico al di fuori della storia stessa. Così il lino del Convento Velho trae la sua vera virtù dal fatto che il suo primo seme lo portò qui un crociato dritto dalla Terra Santa. Chiunque sappia leggere può apprendere dalla Bibbia molte cose sulle terre di Lachis e di Maresa, dove si coltiva il lino. Io non so leggere, e non ho mai visto questo libro di cui si parla tanto. Ma la nonna di mia nonna, da piccola, era la beniamina di un vecchio rabbino ebreo, e tutti gli insegnamenti che egli le impartì sono stati serbati e tramandati nella nostra famiglia. Così voi leggerete, nel libro di Giosuè, che Axa, la figlia di Caleb, smontò dal suo asino e gridò al padre: << Dammi una benedizione! Poiché ora mi hai dato una terra, dammi anche la benedizione di fonti d’acqua! >>. E nei campi di Lachis e di Maresa vissero poi le famiglie di coloro che lavoravano il lino più bello.Il nostro crociato portoghese, i cui antenati un tempo erano stati famosi tessitori di lino di Tornar, cavalcando per quei campi fu colpito dalla qualità della pianta, e così appese un sacchetto di quei semi al pomo della sua sella.Da questa circostanza nacque il primo privilegio del convento, che era quello di fornire le lenzuola nuziali a tutte le giovani principesse della casa reale.Dovete sapere, miei cari signori, che nelle famiglie molto nobili e antiche del Porogallo si conservava scrupolosamente una venerabile consuetudine. La mattina dopo le nozze di una fanciulla, prima ancora che il marito le avesse dato il dono del mattino,  il Ciambellano o il Grande Cerimoniere stendeva fuori da un balcone il lenzuolo di quella notte e proclamava solennemente: Virginem eam tenemus : << dichiariamo che era vergine >>. E quel lenzuolo non veniva né lavato né adoperato mai più.In nessuna nobile famiglia questa veneranda consuetudine era così scrupolosamente rispettata come nella casa regnante stessa, dove era ancora seguita ai tempi dei nostri padri.Orbene, il convento tra le montagne, come premio per l’ottima qualità dei tessuti consegnati, ha da molte centinaia di anni il secondo, ambito privilegio: quello di riavere indietro quel ritaglio centrale del candidissimo lenzuolo che attesta l’onore di una sposa regale.Nel corpo principale del convento, che domina dall’alto un immenso panorama di colli e di vallate, c’è una lunga galleria col pavimento di marmo bianco e nero. Sulle pareti della galleria, l’una accanto all’altra, sono appese tutte in fila molte pesanti cornici dorate, ognuna adorna di una targa d’oro zecchino sormontata dalla corona, su cui è inciso il nome di una principessa: Donna Cristina, Donna Ines, Donna Jacinta Lenora, Donna Maria. E ognuna di queste cornici contiene un riquadro tagliato da un principesco lenzuolo nuziale.Nelle macchie sbiadite sui lini chiunque sia dotato di un po’ di immaginazione e di sensibilità può leggere tutti i segni dello zodiaco: la Bilancia, lo Scorpione, il Leone, i Gemelli. O può scorgervi raffigurazioni suggerite dal suo personale bagaglio di idee: una rosa, un cuore, una spada – o perfino un cuore trafitto da una spada.Nei lontani giorni del passato accadeva che un lungo, imponente corteo smagliante di colori si avventurasse su per l’erta sinuosa, attraverso il paesaggio grigio di rocce, diretto al convento. Principesse del Portogallo, divenute adesso regine o regine madri di altri paesi, Arciduchesse o Elettrici, accompagnate dal loro splendido seguito, si recavano là in un pellegrinaggio che per la sua stessa natura era insieme sacro e segretamente gaio. Dal campo di lino la strada sale ripida, per percorrere quell’ultimo tratto, la dama di sangue reale doveva scendere dalla carrozza e montare su un palanchino, donato al convento proprio a quello scopo.Più tardi, e ancora ai tempi nostri, è successo talvolta – proprio come, quando si brucia un foglio di carta, dopo che tutte le altre faville ne hanno divorato il bordo e si sono spente, può succedere che un’ultima, vivida piccola favilla risplenda e si affretti a seguirle – è successo talvolta che una nobile zitella molto avanti negli anni abbia intrapreso il viaggio sino al Convento Velho. In passato, molto, molto tempo fa, è stata compagna di giochi, amica e damigella d’onore di una giovane principessa del Portogallo. Lungo il percorso verso il convento, volge lo sguardo tutt’intorno per ammirare il panorama che si dispiega da ogni lato. Nell’edificio una suora la accompagna sino alla galleria e alla targa che reca il nome della principessa ch’ella ha un tempo servita, e là si congeda, consapevole del suo desiderio di rimanere sola.Una lunga fila di ricordi trascorre lenta, lenta in quel piccolo e venerabile capo che sotto la mantiglia di merletto nero somiglia a un teschio, e che li accoglie, al ravvisarli a uno a uno, con brevi cenni benevoli. L’amica e la confidente fedele rievoca la nobile vita che la giovane sposa ha trascorso col consorte regale prescelto. Ripassa nella propria mente gli eventi felici e le delusioni – incoronazioni e giubilei, intrighi di corte e guerre, la nascita degli eredi al trono, i matrimoni delle più giovani generazioni di principi e di principesse, l’ascesa o il declino delle dinastie. La vecchia dama ricorderà come, un tempo, dalle macchie sul tessuto si traessero auspici; ora potrà mettere a raffronto gli avvenimenti reali e quegli auspici, sospirando un poco e un poco sorridendo. Ognuno di quei lini, con la sua targa coronata, ha una storia da raccontare, e ognuno è stato esposto per fedeltà verso quella storia.Ma al centro della lunga fila c’è un lino che si differenzia dagli altri. La cornice è bella e pesante come tutte, e orgogliosamente come tutte si fregia della targa d’oro con la corona regale. Ma su quest’unica targa non è inciso alcun nome, e il lino nella cornice è niveo da un capo all’altro, una pagina bianca.Suvvia, brava gente, voi che volete sentir raccontare delle storie: guardate questa pagina, e vogliate riconoscere che la saggezza di mia nonna e di tutte le antiche narratrici! Perché infatti, con quale eterna, incrollabile fedeltà fu inserito nella fila quel lino! Persino le narratrici, davanti a esso, si tirano il velo sulla faccia e restano mute. Perché i reali genitori che tanto tempo fa ordinarono di incorniciare e di appendere quel lino, se non avessero avuto nel sangue la tradizione della fedeltà, l’avrebbero magari lasciato fuori.Proprio davanti a quel ritaglio di lino candido le anziane principesse del Portogallo – regine, mogli e madri devote, tolleranti ed esperte del mondo – e le loro nobili compagne di giochi di un tempo, damigelle d’onore e damigelle di corte, si sono soffermate più spesso.Proprio davanti alla pagina bianca le suore vecchie e giovani, con la Madre Badessa in persona, si immergono nella più profonda meditazione.

 
Per saperne di più:
Copertina libro: Karen Blixen

L'uomo invisibile

"L'uomo invisibile". H. G.  Wells . Gruppo Editoriale Mursia.

 

Siamo all’inizio del ‘900 in  Inghilterra: uno scienziato un po’ folle, albino,  con lunghe ricerche segrete ha scoperto un unguento  che rende invisibile  la pelle non pigmentata, la sua. Una serie di avventure comiche e tragiche si sviluppano da questo presupposto: il corpo c’è, ma non si vede, non è un fantasma, ma,  appunto, un “uomo invisibile”.Approfittando della sua invisibilità, si mantiene agli studi  rubando, ma sfortunatamente prende un raffreddore: tutti sentono il ladro starnutire, sentono le porte sbattere e lo scalpiccìo dei suoi piedi invisibili. I suoi inseguitori cospargono il terreno di frammenti di vetro, allora deve mettere le scarpe...e si vedono le scarpe correre da sole...I suoi vestiti stanno appesi come su un attaccapanni animato: non flosci e come vuoti, ma in forma di un corpo che però sembra non ci sia   Si vede dentro il suo stomaco tutto quello che ha appena mangiato, perchè il cibo è materia visibileSi sente il suo respiro, il suo ansimare e gemere, ma non si vede da dove proviene.. Si odono le sue parole, ma non si capisce da dove provengano e nessuno sa dove rivolgersi per rispondere: quindi, nessuno gli risponde.Non si può sparargli: si riesce a capire che è presente, ma non si sa esattamente dove. Come prendere la mira? Giunge alla conclusione che “essere invisibili dà molti vantaggi, ma non dà la possibilità di goderne.”

Riporto le ultime  pagine del racconto, in cui  l’uomo invisibile viene colpito a morte, e allora ritorna alla visibilità.


Fu colpito con forza sotto l’orecchio e avanzò barcollando nel tentativo di affrontare il suo invisibile antagonista. Riuscì a tenersi in piedi e sferrò un pugno in aria, poi fu colpito ancora sotto la mascella e cadde riverso a terra ... Kemp afferrò i polsi, udì il suo assalitore lanciare un grido di dolore e poi la vanga dell’operaio volò sopra di lui e colpì qualcosa che emise un tonfo profondo. Kemp sentì una goccia di vapore umido in viso, la stretta alla gola di colpo si allentò,  con uno sforzo convulso si liberò, afferrò una spalla che rimase passiva e rotolò sopra il suo avversario, afferrò i gomiti invisibili e li premette a terra. “L’ho preso! – gridò Kemp  – aiuto, aiuto! Tenetelo, è qui! Tenetegli i piedi!”Dopo un secondo, ci fu una partecipazione generale alla lotta, e uno che fosse sopraggiunto in quel momento avrebbe pensato che stessero giocando una partita di rugby molto violenta. Non si sentì nessun altro grido dopo quello di Kemp: solo il tonfo dei colpi, il rumore dei piedi e un ansimare pesante.. Poi l’uomo invisibile, con uno sforzo sovrumano, riuscì ad alzarsi. Kemp gli si buttò addosso come un cane su un cervo e una dozzina di mani colpirono e lacerarono quel corpo invisibile ...Il grappolo dei lottatori si abbassò di nuovo, ci furono – temo – anche calci violenti, poi all’improvviso si udì un grido selvaggio “Pietà!” che si spense subito, in un gorgoglio soffocato. “Indietro, disgraziati, indietro!” gridò Kemp con voce soffocata, e molte figure robuste incominciarono a spingere indietro. “E’ ferito, vi dico, state indietro!” Ci fu un vivace movimento per lasciare un po’ di spazio libero, poi il cerchio di quei volti impazienti vide inginocchiarsi  il medico, a una ventina di centimetri dal suolo, premendo a terra braccia invisibili. Dietro di lui un poliziotto teneva caviglie invisibili.”Non lasciatelo andare! -  gridò il grosso operaio tenendo ancora in mano la vanga macchiata di sangue – ci vuole prendere in giro!” “No – disse il medico alzando cautamente un ginocchio – lo sosterrò io:” Il suo volto era tutto ammaccato e già si stava arrossando. Parlava a fatica, perchè un labbro gli sanguinava. Abbassò una mano e sembrò tastare una faccia. “La bocca è tutta bagnata – disse, poi  – mio Dio...” Si alzò di colpo e poi si inginocchiò accanto a quel corpo invisibile.La gente spingeva e si introduceva nel gruppo, mentre altre persone venivano intanto ad aumentare la pressione della folla.  Quasi nessuno parlò. Kemp tastò intorno e sembrava muovesse le mani attraverso l’aria vuota. “Non riesco a sentirgli il polso...il suo fianco.....” “ Ecco...OOH ! - Una vecchia, guardando da sotto un braccio del grosso operaio, mandò un grido acuto -“Osservate qua!” – disse, indicando con un dito grinzoso. E  guardando ciò che ella indicava tutti videro il profilo di una mano pallida e trasparente, come fosse fatta di vetro: vi si distinguevano vene e arterie, ossa e nervi: una mano abbandonata e aperta. Mentre tutti la guardavano diventava sempre pùì opaca. “Ehi – gridò il poliziotto – ehi, adesso un piede!”.E così, prima dalle mani e dai piedi, poi lentamente lungo le membra  fino ai centri vitali, continuò quello strano mutamento: ritornava a essere visibile.Era come il lento espandersi di un velenoPrima comparvero le venuzze bianche, che tracciarono un abbozzo grigiastro indistinto delle membra, poi le ossa trasparenti e il disegno intricato delle vene. Poi pelle e carne: prima si vedevano solo come una debole nebbia, poi rapidamente diventarono dense e opache. Dopo un po’, la folla potè vedere il torace aperto da una ferita, le spalle e i contorni confusi di quel volto teso e deformato. Quando infine la folla lasciò posto a Kemp e questi si potè alzare, in terra giaceva, nudo e pietoso, il corpo di un giovane sulla trentina. Aveva capelli e sopracciglia bianchi, non grigi per l’età, ma bianchi: bianchi come quelli degli albini, e gli occhi rossi, come rubini. Le mani erano strette a pugno, gli occhi spalancati, e il volto aveva un’espressione di rabbia e di sgomento insieme. “Copritegli il viso – gridò un uomo – per amor del cielo, coprite quel viso!” Qualcuno portò un lenzuolo: lo coprirono e lo portarono dentro. Ed egli rimase là, su un letto sordido, in una stanza disadorna, male illuninata, circondato da una folla ignorante ed eccitata, ferito e martoriato, tradito e non compianto. Lui, il primo fra tutti gli uomini che riuscì a rendersi invisibile, il piì dotato fra tutti i fisici che il mondo abbia mai avuto, finì la sua strana e
terribile carriera in modo veramente tragico.

Così finisce la storia dello strano e malvagio esperimento dell’uomo invisibile e, se volete saperne di più, dovete andare in una piccola locanda vicino a Port Stew e parlare con il padrone. L’insegna della locanda è un’asse vuota, con su dipinti solo un cappello e un paio di scarpe: si chiama come il titolo di questo racconto.

 
Per saperne di più:
Copertina Libro:  H. G. Wells

Bianco, puro, bellissimo

update: Settembre 2012

"Il Codice da Vinci". Dan Brown. Mondadori Editore 
 
Estraggo  la storia di Silas  da diversi capitoli de “Il codice da Vinci” di Dan Brawn, mettendola insieme come  se si trattasse di un racconto unico.


Non si chiamava Silas, allora, anche se non ricordava il nome che i genitori gli avevano dato. Era fuggito di casa quando  non aveva  ancora sette anni. Il padre, ubriacone, un rozzo lavoratore del porto, infuriato dalla nascita di un figlio albino, picchiava regolarmente la moglie incolpandola della condizione del bambino che per lui costituiva una vergogna. Quando il figlio cercava di difenderla, veniva a sua volta percosso. Una notte, c’era stato un litigio terribile, e la madre non si era più alzata. Il bambino era rimasto a lungo accanto al corpo senza vita della madre e aveva provato un irresistibile senso di colpa, perché non aveva potuto impedire che ciò accadesse.  […]

Il bambino era fuggito di casa, ma aveva trovato altrettanto ostili le strade di Marsiglia: il suo aspetto diverso ne aveva fatto un reietto fra gli altri giovani vagabondi, ed era stato costretto a vivere da solo nella cantina di una fabbrica abbandonata, mangiando la frutta che riusciva a rubare e il pesce crudo del porto. I suoi soli compagni erano i giornali strappati che trovava tra i rifiuti, sui quali aveva imparato a leggere. Col tempo era divenuto sempre più robusto e, quando aveva dodici anni, un’altra vagabonda, che aveva il doppio dei suoi anni, lo aveva preso in giro davanti a tutti e aveva cercato di rubargli il cibo. Lui l’aveva picchiata fin quasi a ucciderla. Quando le guardie erano riuscite a staccarlo da lei,  gli avevano dato un ultimatum:” O lasci Marsiglia, o vai in riformatorio”. Il ragazzo si era allontanato lungo la costa, fino a raggiungere Tolone. Col tempo  le occhiate di disprezzo di coloro che lo incontravano  erano divenute sguardi di paura. Il ragazzo era divenuto un giovanotto eccezionalmente alto e forte. Quando la gente gli passava vicino, la sentiva sussurrare:” Un fantasma!” Lo dicevano sgranando gli occhi per la paura nel vedere la sua pelle bianca,”Un fantasma con gli occhi di un diavolo!” ed egli si sentiva davvero un fantasma, un essere trasparente che volava da un porto all’altro. La gente che guardava nella sua direzione, non posava gli occhi su di lui. A diciott’anni, in un porto, mentre tentava di rubare una cassa di prosciutto da una nave da carico, era stato scoperto da un paio di marinai. I due uomini che avevano cominciato a colpirlo puzzavano di birra, esattamente come un tempo suo padre. I ricordi, gonfi di paura e di odio,  si erano affacciati come un mostro che risale dalle profondità del mare: con le mani nude, il giovane aveva spezzato il collo a un marinaio. E solo l’arrivo della polizia aveva evitato al secondo di subire la stessa sorte. Due mesi più tardi, in ceppi, arrivava alla prigione di Andorra.

 “Sei bianco come un fantasma” – lo avevano preso in  giro i compagni, quando le guardie lo avevano portato dentro, nudo e raggelato. “Mira el espectro!”. ” Forse il fantasma riuscirà a sfuggire attraverso le pareti!” In dodici anni di prigione, la sua pelle e la sua anima si erano disseccate fino a convincerlo  di essere davvero trasparente. “Sono un fantasma. Sono privo di peso. Yo soy un espectro. Pàlido como un fantasma. Caminando este mundo a solas.” Una notte, il fantasma era stato svegliato dalle urla degli altri carcerati. Non capiva che forza invisibile scuotesse il pavimento su cui dormiva e quale mano possente facesse tremare la calce della sua cella di pietra, ma, non appena era balzato in piedi, un enorme masso era caduto nel punto esatto dove aveva dormito fino a un attimo prima. Guardando in alto per capire da dove venisse quella pietra, aveva visto un foro nella parete che oscillava ancora e dal foro, un’immagine che non vedeva da più di dieci anni: la luna! Mentre la terra continuava a tremare, il fantasma si era infilato nel foro e si era trovato davanti a un’enorme distesa aperta. Un istante più tardi, correva lungo il fianco della montagna per rifugiarsi nel bosco.  […]

Alla fine, troppo debole per fare ancora un solo passo, si era disteso sul marciapiede e aveva perso i sensi. La luce era tornata lentamente, e il fantasma si era chiesto da quanti giorni fosse morto. Un giorno? Tre giorni? Non aveva importanza. Il suo letto era soffice come una nuvola e l’aria intorno a lui aveva l’odore dolciastro delle candele. Gesù era sopra di lui e lo guardava. “Sono qui io” – aveva detto Gesù  “La pietra è rotolata via e tu sei rinato”.  Si era addormentato e si era destato nuovamente: aveva la testa un po’ confusa. Non aveva mai creduto nel Paradiso, ma adesso c’era Gesù che lo custodiva. Il fantasma aveva visto del cibo accanto al letto e l’aveva mangiato, provando l’impressione che la carne tornasse a materializzarsi sulle sue ossa. Aveva dormito di nuovo. Al suo risveglio Gesù gli sorrideva ancora e gli diceva:”Sei salvo, figlio mio! Benedetti coloro che seguono i miei passi.” Si era di nuovo addormentato. A destare il fantasma questa volta era stato un grido di dolore. il suo corpo era balzato fuori dal letto, si era diretto verso il luogo da cui giungevano le grida in fondo al corridoio, si era trovato in una cucina: c’era un uomo massiccio che ne picchiava un altro più mingherlino. Istintivamente, il fantasma aveva afferrato l’uomo più grosso e lo aveva sbattuto contro il muro. L’uomo era fuggito, lasciando soli il fantasma e un giovane uomo vestito da prete. Il religioso aveva una brutta ferita al naso, il fantasma lo aveva sollevato e lo aveva messo a sedere.“Grazie, amico mio – aveva detto il sacerdote, parlando in un francese non molto sicuro – le monete delle elemosine sono una tentazione per i ladri. Tu parlavi francese nel sonno. Parli anche spagnolo?” Il fantasma aveva scosso la testa . “Come ti chiami?” – aveva proseguito nel suo francese incerto. Il fantasma non ricordava il nome che i genitori gli avevano dato: le uniche parole che riusciva a ricordare erano gli insulti delle guardie della prigione. Il prete aveva sorriso “No hay problema. Io sono Manuel Aringarosa, sono un sacerdote venuto da Madrid, sono stato mandato qui a costruire una chiesa per conto dell’Ovra de Dios.”. “Dove sono?” “ A Oviedo, nel nord della Spagna.” “Come sono arrivato qui?” “Qualcuno ti ha lasciato sulla mia soglia. Eri malato, ti ho dato da mangiare: Sei qui da alcuni giorni.” Il fantasma aveva osservato il suo giovane salvatore: erano passati anni da quando qualcuno era stato gentile con lui. “Grazie, padre”  Il prete si era toccato il labbro sporco di sangue “Sono io a doverti ringraziare, amico mio”. Quando il fantasma si era destato l’indomani mattina, il mondo gli era apparso più chiaro.  [...]  “Gli Atti degli Apostoli” – aveva detto qualcuno dalla porta. Il fantasma si era voltato, impaurito. Il giovane sacerdote gli aveva sorriso: aveva sul naso un enorme cerotto, teneva in mano una vecchia Bibbia “Ne ho trovata una in francese per te: ho segnato il capitolo.” Confuso, il fantasma aveva preso la Bibbia e aveva guardato il punto indicato dal sacerdote “Atti, 16”. I versetti parlavano di un prigioniero chiamato Silas, che giaceva nudo e dolorante per le percosse nella sua cella e cantava inni a Dio. Quando raggiunse il versetto 26, il fantasma rimase a bocca aperta per lo stupore: “…D’improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione. Subito, tutte le porte di aprirono.” Aveva fissato il sacerdote: questi gli aveva sorriso con calore. “D’ora in poi, amico mio, se non hai altro nome, ti chiamerò Silas”. Il fantasma gli aveva rivolto un cenno di assenso, Silas era tornato al mondo della carne.

 
Silas si lega al suo benefattore di un legame molto stretto e gli dimostra  la sua gratitudine in tutti i modi possibili, mette in pratica tutte le sue parole senza nemmeno tentare di farsene una ragione: le complicate vicende della narrazione lo portano a diventare un assassino, credendo in buona fede che si tratti di un ordine da parte di lui. Ma poi deve rendersi conto di un tragico errore.


 [,,,]   Silas non credeva di essere mai stato così angosciato come in quel momento. “Sono stato ingannato. Tutto è perduto!” Silas era stato ingannato: i fratelli avevano mentito. Avevano scelto la morte invece di rivelare il loro vero segreto. Silas non aveva la forza di telefonare al Maestro.   […]  Aveva pensato di nascondersi nell’ufficio dell’Opus Dei, una volta terminato il suo compito. “Il vescovo Aringarosa mi proteggerà”. Non  immaginava una beatitudine superiore a quella di una vita di meditazione e preghiera nelle profondità del quartier generale dell’ Opus Dei: non avrebbe mai più messo piede all’esterno. Tutto ciò che gli occorreva si trovava dentro quel rifugio. “nessuno sentirà la mia mancanza”. Purtroppo  -  sapeva Silas  - un uomo importante come il vescovo Aringarosa non poteva sparire altrettanto facilmente. “Ho danneggiato il vescovo” Silas fissò il pavimento e si chiese se non fosse il caso di togliersi la vita. Dopo tutto, era stato Aringarosa a ridargliela,  in quella  piccola chiesa spagnola dove gli aveva insegnato e gli aveva dato uno scopo. “Amico mio – gli aveva detto Aringarosa -  tu sei nato albino: non lasciarti umiliare dagli altri per questo. Non capisci come ti rende speciale! Sai che lo stesso Noè era albino? Noè dell’Arca!” –  (Silas non lo aveva mai saputo)  Aringarosa gli aveva sorriso:” Proprio lui: Noè dell’Arca! Un albino: come te!  Aveva la pelle bianca degli angeli. Rifletti: Noè ha salvato tutte le creature della terra. Tu sei destinato a grandi cose, Silas! Il Signore ti ha liberato per un motivo. Hai capito la tua vocazione: il Signore ha bisogno del tuo aiuto per compiere il suo lavoro!”  Col tempo, Silas aveva imparato a considerarsi sotto una nuova luce “Sono puro, bianco, bellissimo. Come un angelo!” Ma , al momento, nella sua stanza  della sede parigina dell’Opus Dei, sentiva solo la voce di suo padre, che gli sussurrava, dal passato:”Tu es un desastre! Un spectre!”
Inginocchiato  sul pavimento di legno, Silas pregò, per ottenere il perdono.


Per saperne di più:  
copertina libro: Codice da Vinci di Dan Brown   Dan Brown

presentazione libro

presentazione film

Non figlio di uomo, ma degli angeli: Noè

 

lIl sito dedicato all’albinismo per U.S.A. e Canada, da cui ho tratto questo testo, tradotto per voi,  porta la denominazione  di NOAH: Noè, usato come acronimo, Questo significa che viene accreditata una credenza secondo la quale Noè era albino. Chi ha letto la storia di Sylas sa già che il suo benefattore,  per dargli un modello di identificazione positivo, gli dice che  albino era anche Noè -  Noè dell’Arca, che ha salvato tutte le specie viventi dal Diluvio. Questa leggenda si basa sul Libro di Enoch, uno dei Rotoli del Mar Morto, che furono ritrovati pochi decenni fa e contengono antichi scritti giudaici, non inclusi nella Bibbia. Viene descritta la nascita di Noè, che si  presenta subito come un bambino eccezionale: la bianchezza della  pelle e dei capelli viene presto svelata come segno di un grande destino, anche se il primo effetto è quello di ispirare a Lamech, il padre, dubbi sulla sua paternità. Le caratteristiche del bambino miracoloso corrispondono ad immagini molto diffuse in tutte le culture. Nell’Apocalisse, così viene descritta  l’apparizione del Cristo Risorto: “I capelli della sua testa erano bianchi, simili a lana candida, come neve.” (Ap. 1-14) Non è dunque necessario pensare a un reale albinismo, ma piuttosto a una sequenza di simboli,  che traggono dall’immaginario la loro forza. Non è necessario, ma non è proibito: chi ci tiene ad avere un nonno così importante, e qualche parente fra gli angeli, può fare proprie queste immagini.
La storia è raccontata da Enoch, capo della famiglia e bisnonno del bambino.



E poco dopo mio figlio Matusalemme diede moglie a suo figlio Lamech: ella rimase incinta e partorì un figlio maschio. E il suo corpo era bianco come la neve e rosso come un bocciolo di rosa: i suoi capelli in lunghi riccioli erano bianchi come la lana e gli occhi erano molto belli.. E quando aprì gli occhi, illuminò tutta la casa come il sole e la casa intera era splendente. Subito dopo, si alzò fra le mani della levatrice, aprì la bocca e si mise a conversare con il Signore della Giustizia.
Suo padre Lamech  si spaventò e scappò via:  corse da suo padre Matusalemme e gli disse:”Mi è nato un bambino strano, diverso da un figlio di uomo e non simile a nessun: assomiglia ai figli del Dio del cielo.  La sua natura è diversa e non è come noi. I suoi occhi sono come i raggi del sole e il suo portamento è glorioso. Mi sembra che non sia veramente mio figlio,  ma degli angeli,  e ho paura che sulla terra stia per accadere una catastrofe. E ora, padre mio, ti prego  e ti imploro: vai da Enoch, nostro padre e fatti dire da lui la verità, perchè il suo posto è fra gli angeli.
E come Matusalemme udì le parole di suo figlio, corse da me dall’altra parte del mondo, perchè aveva sentito dire che ero là: gridò forte e io sentii la sua voce e gli venni incontro dicendo:: “Guarda, sono qui, figlio mio, per quale motivo sei venuto da me?”  E lui rispose dicendo:”Per  una grande angoscia sono venuto da te,  per  una visione sconvolgente ti ho cercato. E adesso, padre, ascoltami: a  Lamech mio figlio è nato un bambino: non assomiglia a nessuno, la sua natura non è quella dell’uomo,  il suo colore è più bianco della neve e più rosso di un bocciolo di rosa, ha i capelli più candidi della lana candida,  gli occhi come raggi di sole, quando ha aperto gli occhi ha illuninato tutta la casa. Si è alzato fra le mani della levatrice, ha aperto la bocca e benedetto il Dio del cielo. E suo padre Lamech si è spaventato  ed è corso da me, e non crede che sia figlio suo, ma che sia della famiglia degli angeli del cielo. E io sono venuto da te perchè credo che tu conosca  la verità.”
E io, Enoch, gli risposi dicendo: “<< il Signore farà una cosa nuova sulla terra: ho avuto una visione e ti faccio sapere che nella generazione di mio padre alcuni angeli del cielo trasgredirono la parola del Signore. E, ascolta, commisero peccato e trasgredirono la legge, si unirono alle donne e peccarono con loro, ne presero alcune come mogli ed ebbero figli da loro. Ed essi faranno nascere sulla terra giganti non secondo lo spirito ma secondo la carne, e ci sarà una grande punizione sulla terra: la terra verrà ripulità di tutte le impurità. Sì: verrà una grande distruzione su tutta la terra e ci sarà un diluvio e una grande catastrofe per un anno. E questo figlio che è nato nella tua famiglia sarà risparmiato, e i suoi tre figli con lui, mentre tutti gli uomini della terra moriranno. E adesso vai a dire a tuo figlio Lamech che quello che gli è nato è davvero suo figlio e lo chiami Noè. Egli rimarrà, egli e i suoi figli saranno salvati dalla distruzione che verrà sulla terra durante la sua vita. E dopo questo, ci sarà ancora più ingiustizia di quella che c’era prima sulla terra  Io conosco i misteri dei santi,  perchè Egli, il Signore, me li ha rivelati.”


Per saperne di più:
Bianco, puro, bellissimo

Libro di Enoc


Sul pregiudizio

"Rosso Malpelo". Giovanni Verga.


Nel capitolo intitolato “La bianchezza della balena”, H. Melville afferma che la cosa impressionante, in un albino, è “la bianchezza che lo fascia, che  si esprime nel nome che porta”. Come se il nome facesse parte della cosa nominata. Questo è un modo molto interessante di capire come funziona il pregiudizio, che si autoconserva invertendo l’ordine di causa- effetto. Faccio un esempio molto simile, di pregiudizio basato sul colore raro dei capelli,  in questo caso rossi (secondo una superstizione popolare, i capelli rossi sono segno di carattere malvagio), citando l’inizio della novella di Giovanni Verga,  "Rosso Malpelo" .

“Malpelo si chiamava così perchè aveva i capelli rossi ed aveva i capelli rossi perchè era cattivo”
 

 

Per saperne di più:
copertina libri:Vita dei campi di Giovanni Verga  Giovanni Verga

Rosso Malpelo: testo integrale

Orrore del bianco


 

Un pipistrello saggio

"Il fantastico volo di ali d'argento". Kenneth Oppel .Edizione Piemme.
Per ragazzi dagli 8 ai 12 anni.


Durante una violenta tempesta, Ombra, un giovane pipistrello della colonia Ali d’Argento, si ritrova all’improvviso da solo, in balia del vento e della pioggia. Per raggiungere i suoi compagni dovrà affrontare un viaggio pieno di pericoli e farà  molti incontri, fra i quali un pipistrello albino.
Il pipistrello albino vive su una torre: è molto saggio e ha il dono della preveggenza.  Con i suoi sensibilissimi ultrasuoni “sente” il vento e gli avvenimenti anche prima che accadano. E’ esperto di erbe medicinali e sa riconoscere le foglie che inducono il sonno e quelle che guariscono le ferite. Grazie al suo aiuto, il viaggio di Ombra continua verso un ritorno cui fa seguito un altro viaggio.



Per saperne di più:
Copertina libro: Kenneth Oppel

Siamo solo noi

"Le malattie rare: storie di persone eccezionali". Margherita de Bac



“Bambini farfalla.
Bambini di pezza.
Con gli occhi a stella…”Con “un bastoncino rotto nel DNA”. *
Quindici storie di bambini e persone adulte affette da una malattia genetica rara, alle prese con lunghe peripezie per  ottenere una diagnosi precisa,  in modo da poter identificare un percorso di recupero e di ottimizzazione delle capacità. Segue la difficoltà di avere a disposizione  farmaci adeguati: le case produttrici non sono motivate a investire nella ricerca e nella sperimentazione, dunque si rende necessario trovare finanziamenti alternativi Le  storie raccolte in questo libro (ad ognuna fa seguito una scheda di informazione scientifica),  evidenziano come la diagnosi precoce e la disponibilità di farmaci possano ridurre al minimo i danni della malattia e aprire la strada  a una condizione di vita soddisfacente.Sono tutte storie di persone eccezionali, i malati, spesso bambini,  e le loro famiglie,  che  riescono  a mobilitare risorse e strategie impensabili, ad inventare la loro convivenza con la malattia e l’equilibrio con la “normalità”,  a trovare risposte di senso al di là di tutte le ragioni,  spesso  nella dolorosa solitudine in cui una società apparentemente tollerante lascia chi è diverso nell’aspetto e nella capacità di prestazione.  
Con l’introduzione di Dario Fo e interviste alla responsabile del Centro Malattie Rare e  ai più quotati ricercatori nel campo della medicina genetica.

*bambini tutti bianchi con gli occhi trasparenti
Fra le anomalie genetiche rare, insieme a tante altre che non rientrano in questo l ibro, rientra l’albinismo  (n.d.r.)

 

Per saperne di più:
Copertina libro: Siamo solo noi di Margherita de Bac   


"...dentro restavo pallido..."

“Una storia di amore e di tenebra”. Amos Oz. Edizione Feltrinelli 2003. Traduzione Elena Loewenthal . pp. 601-3, 606-7.



Arrivai a Hulda che avevo quindici anni, circa due dopo la morte di mia madre, : viso pallido fra le abbronzature, smunto quarto di pollo fra giovanotti corpacciuti e ben piantati, infaticabile parlantina fra taciturni, versificatore fra coltivatori, stallieri e trattoristi. I miei nuovi compagni di classe, maschi e femmine, delle “classi di proseguimento” a Hulda, erano tutti indistintamente menti sane in corpi sani – solo io ero una mente morbosetta in un corpo quasi trasparente. […] In breve, un po’ un’educazione sbagliata, un po’ un DNA irreparabilmente fallato.
Invano facevo del mio meglio per eccellere nel lavoro dei campi trascurando invece gli studi, Invano mi ustionai come carne cruda sullo spiedo nel tentativo di diventare abbronzato come loro. Invano nelle discussioni al circolo sull’attualità mi dimostravo il socialista più socialista di Hulda, se non di tutta la classe operaia. Nulla mi servì: per loro restavo una specie di alieno, un estraneo strano, e per questo i miei compagni di classe continuavano a infierire su di me senza pietà, invitandomi a liberarmi una volta per tutte delle mie stranezze e diventare uno di loro. Una volta mi mandarono di corsa alla stalla senza torcia, nel cuore della notte, a controllare e riferire se per caso non ci fosse qualche vacca in calore che avesse urgente bisogno dei favori del toro. Un’altra mi assegnarono al turno di lavoro nel settore sanitario. Un’altra fui mandato nel pulcinaio, a dividere i maschi dalle femmine nella gabbia delle anitre.: sì che non dimenticassi mai da dove venivo , e non ci fossero illusioni di sorta su dove ero arrivato.
Io, dal canto mio, accolsi tutto con umiltà, perché sapevo che il mio sradicamento da Gerusalemme, il mio nuovo travaglio di parto, sarebbe stato necessariamente doloroso.  Mi rassegnai quindi alle angherie e alle umiliazioni, non perché soffrissi di un complesso di inferiorità, ma perché ero effettivamente inferiore. […]

 Per quanto mi fossi abbronzato, non avrei illuso nessuno: tutti sapevano bene – lo sapevo anch’io – che, malgrado la mia pelle fosse diventata finalmente bella scura, dentro restavo pallido. Per quanto mi fossi dedicato anima e corpo al lavoro, imparando persino a passare i tubi per l’irrigazione nei campi per il foraggio, a guidare il trattore, a sparare senza sbagliare mira con la vecchia carabina, dalla mia pelle non c’era verso di uscire. […]  Loro, invece, mi sembravano tutti sublimi: i ragazzi gagliardi capaci di segnare con la sinistra un gol da venti metri di distanza, spezzare la testa a un giovane pollo senza battere ciglio, fare un’incursione notturna al magazzino delle provviste e portare via qualche leccornia per il picnic intorno al fuoco. E le ragazze impavide, capaci di marciare per trenta chilometri con uno zaino di trenta chili sulle spalle e dopo tutto ciò trovare ancora l’energia per ballare fino a tarda notte. […].

 Ma certo: sapevo qual era il mio posto. Ero conscio dei miei limiti. Niente passi più lunghi della gamba. Certo, gli uomini nascono tutti uguali, è un principio fondamentale su cui si basa la vita in Kibbutz. Ma l’amore è terreno per le forze della natura, non per il comitato per l’uguaglianza. E sul terreno dell’amore, come ben si sa, solo i cedri attecchiscono, non certo l’issopo del muro.Ma, come ben si sa, anche i gatti hanno diritto di contemplare il re. In effetti guardavo tutto il giorno e anche la notte a letto, dopo aver chiuso gli occhi, continuavo a guardare i bei soldati biondi. E soprattutto guardavo le ragazze. Quanto guardavo. Fissavo con occhi famelici. Persino nel sonno piantavo i miei occhi ardenti e disperati di vitello. Senza alcuna speranza: peraltro, sapevo che non erano per me, loro.. Loro, i maschi, il vanto d’Israele – io, il baco di Giacobbe. Loro, le ragazze, la schiera di gazzelle silvestri, e io lo sciacallo che lagnava oltre il muro di cinta. E, fra tutte – la ciliegia sulla torta – Nilli.
Erano tutte belle come un sole. Tutte. Ma Nilli – intorno a Nilli fremeva sempre un cerchio di giubilo. Nilli cantava camminando,  per il sentiero, sul prato, nel boschetto, fra le aiuole. Camminava e cantava fra sé e sé. E, anche quando non cantava, a me sembrava stesse cantando. Che cosa mai avrà da cantare, mi domandavo a volte dal profondo dei miei tormenti sedicenni, che cosa ha sempre da cantare? Che cosa c’è di tanto bello in questo mondo?  Insomma, tormento fatale che strazia / angoscia di vita / del passato in conoscibile /  del domani inimmaginabile… e lei ha ancora il coraggio di decantare tanta gioia di vivere? Un’allegria così radiosa? Una felicità come la sua?  Insomma, non ha mai sentito dire che i monti di Efraim han preso / una giovane vittima ancora /…e anche la nostra vita / di sacrificio al popolo?...Insomma, Nilli non sa nulla di tutto questo?  Non ha neanche una vaga idea del fatto che abbiam perduto / quanto di più caro c’era / e mai più a noi tornerà?... Incredibile. Irritante, ma anche seducente: come una lucciola. […]

 Lucciola? Un generatore. Una centrale elettrica al completo. […] In quel periodo, insomma, Nilli usciva con il fior fiore della terra, mentre io non promettevo granchè: quando la principessa, accerchiata da uno stuolo di spasimanti, passava davanti alla casupola di un servo della gleba, questi tutt’al più levava  un istante lo sguardo verso di lei, ne restava abbagliato e tanto gli bastava. Perciò fece grande scalpore a Hulda, e persino negli abitati vicini, la scoperta, un giorno, che la luce del sole era scesa a inondare inaspettatamente il lato oscuro della luna. Quel giorno a Hulda le vacche deposero uova, dalle mammelle delle pecore sgorgò il vino  e gli eucalipti stillarono latte e miele. Dietro il magazzino dell’ovile furono avvistati orsi polari e l’imperatore del Giappone  declamava brani di A.D. Gordon nei pressi della lavanderia. I monti trasudavano  nettare e le colline si sdilinquivano. Settantasette ore filate il sole rimase impalato sopra le fronde dei cipressi, senza volerne sapere di tramontare. E io andai alla doccia dei maschi deserta, chiusi bene la porta, mi fermai davanti allo specchio e domandai a voce alta, specchio specchio delle mie brame, dimmi, come è potuto succedere? Che ho fatto per meritare tutto questo?

Per saperne di più:
copertina del libro: "Una storia di amore e di tenenbra" di Amos Oz Amos Oz

Anteprima libro

 




Storia minima

"La lampada di Aladino". Luis Sepùlveda. Edizione Guanda pp.39-40


 
Sono due ore che aspetto e chi se ne importa se mi guardano, borbotto a voce bassa mentre mi cerco in un angolo dello specchio per ravviarmi i capelli e aggiustare il nodo alla cravatta. Ci sono tante cose nello specchio: schiene di materiale sintetico che sfoggiano giacche di marca, gambe infilate in pantaloni di lino perché si avvicina l’estate, strane strutture vagamente antropomorfiche per sostenere camicie oppure maglioni di quelli che si portano con noncuranza sulle spalle, e lì, fra due paia di mocassini, c’è anche la mia testa, il mio viso un po’ nervoso, serio, speranzoso. La gente mi osserva, qualcuno sorride, altri danno una gomitata al compagno perché mi guardi e so che non è per via di quel che indosso. Vestito o nudo, non passerò mai inosservato. Ho raccolto dei fiori nel parco qua vicino. Niente di straordinario, fiori semplici che erano lì, a portata di mano. Non so nemmeno come si chiamano.
 
Verrà? Ne dubito, perché so quant’è difficile vincere una paura che non è paura, una vergogna che non è vergogna, la colpa più innocente. Ne dubito e, per vincere la sfiducia delle ore passate ad aspettare, mi accendo una sigaretta. Ora attiro molto di più gli sguardi dei passanti. E’ sempre così. “Sta fumando”, “Sta mangiando”, “Sta piangendo”. Qualunque cosa faccia è sempre così.  

All’improvviso guardo il mazzo di fiori e scopro che la mia mano, invece di reggerli, li stringe, li strangola con quella violenza minima che basta a sconfiggere i loro fragili colli vegetali. Sorrido pensando che sono appassiti in un lasso di tempo davvero minimo, come le bandiere di un esercito altrettanto minimo e sconfitto, e i loro petali cenciosi mi dicono che è ora di intraprendere la ritirata.

Getto i fiori nel primo cestino dei rifiuti e mi allontano, seguito dagli sguardi dei passanti e dalle loro voci che dicono: hai visto il nano come ha buttato via i fiori? Aveva un appuntamento? Con una nana? Hanno tirato un bidone al nano. Sono strani i nani, e altri commenti sulla cui statura non voglio né devo pronunciarmi.   


Per saperne di più: 
copertina libro: La lampada di Aladino di Luis Spùlveda  Luìs Sepulveda




Far crescere un bambino con albinismo Una guida per i primi anni.

"Raising a  child with albinism . A guide to the early years". NOAH


Per i genitori dei bambini albini, la National Organization for Albinism and HYpopigmantation di Stati Uniti e Canada (NOAH), ha pubblicato un libro, frutto di venti anni di attività:
Raising a child with albinism. A guide to the early years

Tutti i problemi cruciali cui si trovano di fronte i genitori disorientati dalla nascita di un bambino albino vengono trattati con chiarezza e grande praticità, in un linguaggio semplice, accessibile anche a chi abbia una conoscenza elementare della lingua inglese.

Le immagini dei bambini albini riportate nel libro sono molto belle e rasserenanti: costituiscono da sole una parte del testo e un buon motivo per richiederlo.

Questi gli argomenti:
1)Accogliere un bambino con albinismo nella vostra vita
2)Cos’è l’albinismo
3)Quale impatto avrà l’albinismo sulla sua crescita?
4)Stimolare la vista
5)Professionisti della salute ed esame oculistico
6)Opzioniterapeutiche
7)Fornitori di servizi*
8)Servizi di intervento precoce*
9)Tecnologie assistite1
0)Aspetti sociali dell’albinismo
11)Albini di colore
12)Protezione solare
13)Vostro figlio in classe1
4)Lo sport e i bambini con albinismo

* La situazione descritta è relativa agli Stati Uniti ma un raffronto con il nostro paese è ampiamente possibile.

Per saperne di più:
copertina libro: Raising a child with albinism di NOAH.  

L'unico specchio della casa

"Il raduno", racconto tratto dalla raccolta “Il paese d’ottobre”.  Ray Bradbury, scrittore americano, molto noto come autore di "Fahrenheit 451". Edizione Fantacollana Nord.


Che cosa non va in Tim, che tutti considerano malato?
Ad un raduno di famiglia, i parenti si sentono a disagio con la sua condizione: chi lo prende in giro, chi fa finta di non vederlo,  chi gli fa coraggio, con tenerezza o commiserazione, chi lo rassicura che, crescendo, diventerà come gli altri. Insomma, tutte le reazioni che si hanno con un “diverso”. Infatti Tim è proprio diverso dai suoi familiari, anche se non capiamo subito in cosa consista la sua diversità.
Capiamo, invece presto, che sono “loro” ad avere un rapporto strano con la condizione umana.
 
 
 
«Ecco che arrivano» disse Cecy, supina nel letto.«Dove sono?» esclamò Timothy dalla soglia.«Alcuni sono sull'Europa, alcuni sull'Asia, altri sulle Isole, altri ancora sul Sud America!» disse Cecy, tenendo chiusi gli occhi dalle lunghe ciglia castane e frementi.Timothy venne avanti sul tavolato nudo della stanza del piano di sopra. «Chi c'è?»«Zio Einar, zio Fry, il cugino William, e vedo Frulda, Hel-gar, zia Morgiana, la cugina Vivian, vedo anche zio Johann! Arrivano tutti a gran velocità!»«Sono alti nel cielo?» gridò Timothy. I suoi occhietti grigi lampeggiavano. In piedi accanto al letto non mostrava più dei suoi quattordici anni. Fuori il vento soffiava, la casa era al buio, rischiarata solo dalle stelle.«Arrivano attraverso l'aria e viaggiando al suolo in molte forme» disse Cecy, nel suo sonno. Non si muoveva, sul letto; pensava internamente e diceva quel che vedeva. «Vedo un es­sere simile a un lupo che attraversa un fiume scuro, sulle secche, appena a monte della cascata, e il lume delle stelle ri­luce sulla sua pelliccia. Vedo una foglia secca di quercia che si libra alta nel cielo. Vedo un pipistrellino che vola. Vedo molti altri esseri che corrono sugli alberi delle foreste e sgu­sciano lungo i rami più alti. Tutti vengono da questa parte!»«Saranno arrivati domani sera?» Timothy si afferrava alle lenzuola.
Il ragno sul risvolto del suo giubbetto oscillava co­me un pendolo nero, danzando eccitato. Egli si chinò sulla sorella. «Arriveranno a tempo per il Raduno?»«Sì, Timothy, sì» sospirò Cecy. S'irrigidì. «Non chiedermi altro. Vattene, adesso. Lasciami viaggiare nei luoghi che amo.»«Grazie, Cecy» egli disse. Una volta fuori nel corridoio, corse nella sua camera. Rifece il letto in fretta. S'era appena svegliato, qualche minuto fa, al tramonto, e poiché erano spuntate le prime stelle era andato da Cecy a sfogare la sua eccitazione per la prossima festa. Lei ora dormiva così tran­quillamente che non si udiva alcun rumore. Mentre Timothy si lavava la faccia, il ragno penzolava dal suo collo esile, in cima a un laccio argenteo. «Pensa un po' Ragno! Domani se­ra è la vigilia d'Ognissanti!»Alzò il viso e si guardò nello specchio. Era l'unico specchio ammesso in casa: una concessione di sua madre alla sua infer­mità. Oh, se solo egli non fosse stato così malaticcio! Aprì la bocca, osservò i denti mediocri, insufficienti, che la natura gli aveva dato. Erano appena dei granelli di granoturco, rotondi, teneri e pallidi, nelle sue gengive. Un po' del suo entusiasmo si spense.Adesso era venuto completamente buio ed egli accese una candela per vedere. Si sentiva esausto. Da una settimana, l'intera famiglia viveva all'antica maniera del paese natio. Dormiva di giorno, si alzava al tramonto per andare in giro. Egli aveva delle profonde occhiaie azzurre. «Ragno, non val­go niente» disse piano all'esserino. «Non m'abituo nemmeno a dormire di giorno come gli altri.»Prese il candeliere. Oh, avere denti forti, con degli incisivi simili a picche d'acciaio! O almeno mani forti, mente forte. Almeno avere la capacità di mandare la mente lontano, co­me Cecy. Invece no: egli era il minorato, l'ammalato. Aveva persino (tremò e si tirò più vicina la fiammella della candela) paura del buio. I suoi fratelli lo consideravano con disprez­zo. Bion, Léonard e Sam. Ridevano di lui perché dormiva in un letto.
Per Cecy, la faccenda era diversa; il letto faceva par­te della comodità occorrente per potere spedire la mente a caccia lontano. Ma Timothy, dormiva forse come gli altri, in quelle meravigliose casse lucidate? No! La mamma gli face­va avere un letto, una camera tutta per sé, uno specchio. Non c'era da meravigliarsi che la famiglia lo evitasse come il cro­cifisso d'un uomo di chiesa. Se almeno dalle scapole gli fos­sero spuntate le ali! Si denudò la schiena, la osservò. Trasse un altro sospiro. Macché. Neanche pensarci. Mai.Rumori eccitanti e misteriosi venivano dal pianterreno, il fruscio del crespo nero per parare tutti i corridoi, i soffitti, gli usci. E lo scoppiettio delle candele nere accese nel pozzo delle scale attorniato dalle balaustrate. Ecco la voce alta e decisa di sua madre. La voce del padre che risonava dall'u­mida cantina. Bion che veniva da fuori nella vecchia casa di campagna trascinando grandi orci da due galloni.«Devo proprio andare alla festa, Ragno» disse Timothy. Il ragno roteò all'estremità della sua seta e Timothy si sentì solo. Avrebbe lucidato casse, cercato funghi velenosi e ragni, appe­so crespi; ma, cominciata la festa, l'avrebbero ignorato. Meno si vedeva o si parlava del figlio mal riuscito, e meglio era.Abbasso, Laura correva per tutta la casa gridando allegra­mente: «Il Raduno! Il Raduno!». I suoi passi risuonavano dappertutto al tempo stesso.Timothy ripassò davanti alla camera di Cecy, che dormiva silenziosamente. Lei andava a pianterreno una volta al mese. Restava sempre a letto. La cara Cecy. Ebbe voglia di chieder­le: «E adesso, dove sei, Cecy? In chi sei? E che sta accaden­do? Sei oltre le colline? E lì che cosa succede?». Invece pro­seguì fino alla camera di Ellen.Seduta al suo tavolino, stava scegliendo fra varie specie di capelli, biondi, rossi e neri, e di piccole scimitarre d'unghia, raccolte grazie il suo lavoro di manicure al salone di bellezza del Mellin Village, a ventitré chilometri da lì. In un angolo stava una robusta cassa di mogano, con su il suo nome.«Vattene» gli disse lei, senza nemmeno guardarlo. «Non posso lavorare se stai lì a bocca aperta.»«Vigilia d'Ognissanti, pensa, Ellen!» egli disse, cercando di passare sul piano amichevole.«Uah!» Ella mise dei ritagli d'unghia in un sacchettino bianco, e lo segnò. «Che importanza ha, per te? Che cosa ne sai? Ti spaventerai da morire. Torna a letto.»Egli si sentì bruciare le gote. «C'è bisogno di me per luci­dare, far lavori, aiutare nel servizio.»«Se non te ne vai, domani troverai in letto una dozzina d'ostriche crude» disse Ellen con la massima naturalezza. «Ciao, Timothy.»Precipitandosi abbasso, rabbioso, si scontrò con Laura.«Bada dove vai!» ella strillò a denti stretti. E passò via im­petuosamente.Egli corse alla porta aperta della cantina, fiutò il tiraggio d'aria odorante di terra umida che veniva dal basso. «Padre?»«Era ora!» gridò il babbo, su per i gradini. «Presto, vieni giù, o saranno qui prima che noi si sia pronti!»Timothy indugiò appena quel tanto che gli permise d'udire mille altri rumori per la casa. I suoi fratelli andavano e veniva­no come i treni in una stazione, parlando e discutendo. Rima­nendo fermi in un punto, si sarebbe vista sfilare tutta la casa­ta, con le mani pallide piene di cose varie. Léonard, con la sua cassetta farmaceutica nera, Samuel reggendo sotto il braccio il suo librone polveroso rilegato in nero ebano e portando al­tro crespo nero, e Bion che compiva escursioni fino all'auto ferma fuori per portare in casa altri galloni di liquido.Il babbo s'interruppe di lucidare, per dare a Timothy uno straccio e un'occhiata corrucciata. Picchiò sulla grande cassa di mogano. «Su, lucida questa, che ne attacchiamo un'altra.»Mentre passava la cera sulla superficie, Timothy guardò l'interno.«Zio Einar è un omone, vero, papà?»«Uh-uh.»«Quant'è grande?»«Te lo può dire la dimensione della cassa.» «Dicevo per dire. È alto due metri e dieci?» «Parli troppo.»Circa le nove di quella sera, Timothy uscì, nel clima ottobri­no. Per due ore, nel vento ora tiepido ora freddo, egli andò per i prati a raccogliere funghi velenosi e ragni. Aveva di nuovo il cuore pieno d'aspettativa. Quanti parenti aveva detto mamma che sarebbero venuti? Settanta? Cento? Oltrepassò una fatto­ria. Se solo sapeste quel che sta succedendo a casa nostra, dis­se alle finestre illuminate. Salì su un'altura e guardò, a chilo­metri di distanza, la città che stava preparandosi al sonno, con l'orologio del palazzo comunale che spiccava alto, tondo e bianco in lontananza. Neanche la città sapeva niente. Portò a casa vari barattoli di funghi velenosi e di ragni.Nella cappelletta del sottoscala si celebrò una breve cerimo­nia. Fu uguale a tutti gli altri riti degli anni scorsi, con il babbo che cantava i versetti oscuri, la madre che con le belle mani eburnee impartiva le benedizioni alla rovescia, e tutti i figli presenti, eccetto Cecy stesa di sopra, a letto. Ma Cecy era pre­sente. Faceva capolino ora dagli occhi di Bion, ora da quelli di Samuel, ora da quelli della mamma, poi sentivi un sommovi­mento e ora lei era fugacemente in te, per sparire subito.Timothy pregò il Tenebroso, con una morsa alla bocca dello stomaco. «Ti prego, ti prego, aiutami a crescere, aiuta­mi a essere come i miei fratelli e sorelle. Non permettere ch'io sia diverso. Se almeno sapessi mettere i capelli nelle fi­gure di plastica, come fa Ellen, o far innamorare la gente di me, come fa Laura con la gente, o leggere libri strani, come fa Sam, o fare un lavoro stimato, come Léonard e Bion. O magari metter famiglia un giorno, come hanno fatto la mamma e il babbo...»A mezzanotte un temporale martellò la casa. Il fulmine cadeva, fuori, con saette stupefacenti, bianche come la neve. S'udiva un rumore come di tornado in arrivo, una tromba d'aria che tastava, risucchiava, annusava e aspirava l'umidore notturno della terra.
Poi la porta d'ingresso fu quasi sbal­zata dai cardini, rimanendo penzolante di sbieco, ed entra­rono il nonno e la nonna, arrivati dritti dal paese natio.Da quel momento in poi, arrivò gente a tutte l'ore. La fine­stra laterale svolazzò, fu bussato sulla veranda di facciata oppure alla porta di servizio, dalla cantina venivano chiassi pazzi, il vento d'autunno s'ingolfava giù per la gola del cami­no cantilenando. Mamma riempiva il cristallo della gran pa­tera da punch d'un fluido rosso, versato dalle bigonce porta­te a casa da Bion. Babbo andava di stanza in stanza ad accendere altre candele. Laura ed Ellen battevano altro aco­nito. E in mezzo a questo sfrenato trambusto Timothy stava, con il viso senza espressione, con le braccia penzoloni; a guardare di qua e di là. Sbattimenti di porte, risate, il rumo­re del liquido versato, tenebre, voce del vento, rombo palma­to di ali,.passi felpati, esplosioni di voci di benvenuto a ogni nuovo arrivo, vibrazioni trasparenti d'imposte, passaggio, ondeggiamento, andirivieni d'ombre.«Ma guarda, guarda! Questo dev'essere Timothy!»«Eh?»Una mano diaccia gli prese la sua. Un viso lungo e peloso si chinò su di lui. «Un buon ragazzo, un bel ragazzo» disse lo sconosciuto.«Timothy» disse sua madre «questo è lo zio Jason.»«Ciao, zio Jason.»«E laggiù...» La mamma si portò via zio Jason. Il quale si volse a dare una guardatina in tralice a Timothy, oltre le spal­le mantellate, e gli strizzò l'occhio.Timothy rimase solo.Nelle tenebre piene di candele egli udì, come mille chilo­metri lontana, una voce acuta e flautata. Era Ellen. Diceva: «I miei fratelli sono intelligenti. Indovina, zia Morgiana, qual è la loro occupazione?».«Non saprei davvero.»«Gestiscono l'impresa di pompe funebri della città.»«Che mi dici!» Un'esclamazione soffocata di meraviglia.«Proprio così.» Una risata stridula. «Non è buona, questa?»Timothy stava lì, fermo fermo.Una pausa fra le risa. «Il sostentamento, per mamma, papà, per tutti noi» diceva Laura «lo portano a casa i miei fratelli. Eccetto, naturalmente, Timothy...»Cadde un silenzio imbarazzato. La voce di zio Jason chie­se: «Ebbene? Su! Che ha, Timothy?».«Oh, Laura, quella tua linguaccia...» disse la madre.Laura continuò. Timothy chiuse gli occhi. «Timothy non... be'... non gradisce il sangue. È delicato.»«Imparerà» disse la mamma, con molta fermezza. «È fi­glio mio, imparerà. E ha solo quattordici anni.»«Ma io sono stato svezzato con esso» disse zio Jason con una voce che passava da una stanza all'altra. Fuori il vento suonava gli alberi come arpe. Un po' di pioggerella spruzza­va le finestre... mentre lo "svezzato con esso" si spegneva fio­camente.Timothy si morse le labbra e aprì gli occhi.«Be', è stata tutta colpa mia.» La mamma li stava conducen­do in cucina, adesso. «Ho cercato di sforzarlo. I bambini, quan­do sono piccoli, non bisogna sforzarli: serve solo a dar loro la nausea e così, poi, non prendono più gusto alle cose. Prendete Bion, per esempio: è arrivato a tredici anni prima di... »«Capisco» mormorò zio Jason. «Timothy si riprenderà.»«Ne sono certa» disse la mamma con tono di sfida.Le fiammelle delle candele rabbrividivano per le ombre che attraversavano e riattraversavano la dozzina di camere am­muffite. Timothy sentiva freddo. Sentì nelle narici odore di se­go caldo e istintivamente, afferrata una candela, andò in giro con quella per la casa, fingendo di mettere a posto i crespi.«Timothy» sussurrava qualcuno dietro un divisorio tap­pezzato, facendo sfrigolare e sibilare le parole. «Timothy ha paura del buio.»Era la voce di Léonard. Quell'odioso Léonard!«Mi piace la luce di candela, ecco tutto» disse Timothy in un bisbiglio di rimprovero.Altri tuoni, altri fulmini. Cascate di risa. Colpi metallici, tintinnii, grida, fruscii di stoffe. Attraverso la porta d'ingres­so irruppe una foschia viscosa e da questa foschia, ripiegan­do le ali, venne avanti un uomo alto.«Zio Einar!»Timothy si spinse, sulle sue gambucce, dritto nella fo­schia, sotto quelle grandi ombre verdi e palmate. Si gettò nelle braccia di Einar. Questi lo alzò da terra.«Hai le ali, Timothy!» Gettò in aria il ragazzetto leggero co­me una piuma. «Le ali, Timothy; vola!» Sotto, i volti roteava­no. Le tenebre vorticavano. La casa spariva in un soffio. Ti­mothy si sentiva come una brezza. Sbatteva le braccia. Le dita di Einar lo colsero e lo rimandarono al soffitto. Il soffitto veni­va giù come un muro carbonizzato. «Vola, Timothy!» gridava Einar, con voce forte e profonda. «Vola con le ali! Le ali!»Egli provava un'estasi squisita nelle scapole, come se vi crescessero delle radici, spingendo per esplodere e fiorire in membrana nuova e umida. Egli balbettava cose sconnesse; Einar lo lanciò in alto un'altra volta.Il vento d'autunno invadeva la casa come una marea, mentre la pioggia cadeva a rovesci, scotendo le travi, costrin­gendo i lampadari a inclinare le candele impazzite. E i cento parenti facevano capolino da tutte le camere nere e incanta­te, venendo a stringersi in cerchio, in tutte le loro forme e di­mensioni, attorno al punto in cui Einar bilanciava il ragazzi­no come un bastone di tambur maggiore negli spazi ruggenti.Finalmente Einar gridò: «Basta!».Timothy, esaltato, esausto, depositato sul tavolame del pa­vimento, si strinse a zio Einar, singhiozzando felice: «Oh, zio, zio, zio!».«T'è piaciuto volare, eh, Timothy?» disse zio Einar, chi­nandosi ad accarezzare la testa di Timothy. «Bene, bene.»L'alba s'avvicinava. La maggior parte era arrivata ed era pronta a coricarsi per le prime luci, dormire immobile senza  emettere alcun suono fino al tramonto successivo, quando sarebbe balzata gridando dalle casse di mogano, per la gran baldoria.Zio Einar, seguito da decine d'altri, si diresse in cantina. La mamma li guidava alle l'ile sovrapposte e stipate di casse tirate a lucido. Einar, con le ali simili a teli impermeabili ver­demare, ripiegate a tenda dietro di lui, si muoveva producen­do un curioso sibilo lungo il disimpegno; se le sue ali tocca­vano qualcosa, producevano il suono di pelli di tamburo battute piano.Di sopra, Timothy si sdraiò stancamente, cercando di amare il buio. Nelle tenebre si potevano fare tante cose sen­za temere le critiche della gente, che non aveva modo di ve­derti. In realtà, la notte gli piaceva; ma non senza riserva: talvolta la notte era tanta da farlo ribellare e gridare.In cantina, ante di mogano calavano e si chiudevano, tira­te dall'interno da mani pallide. Nei cantucci, certi parenti gi­ravano tre volte su se stessi per acciambellarsi, con la testa sulle zampe e con le palpebre chiuse. Sorgeva il sole. Tempo di dormire.Tramonto. La baldoria esplose come un nido di pipistrelli colpito in pieno, stridendo, svolazzando, sparpagliandosi. Le porte delle casse si spalancavano con un botto. Dei passi si precipitavano su dall'umidità della cantina. Altri ospiti in ri­tardo, che calciavano alle porte anteriori e posteriori, veniva­no fatti entrare.Pioveva, e gli ospiti inzuppati posavano su Timothy le mantelle, i cappelli picchiettati dall'acqua, i veli spruzzati. Egli li portava in uno sgabuzzino. Le stanze erano gremite. La risata di un cugino partiva da una stanza, deviava sulla parete di un'altra, rimbalzava, planava e tornava all'orecchio di Timothy, precisa e cinica.Un sorcetto attraversò di corsa il pavimento.«Ti conosco, nipotina Leibersrouter!» esclamò il babbo.Il sorcetto girò a spirale intorno a tre piedi femminili e scomparve in un angolo. Pochi attimi dopo, una bella donna sorta dal nulla stava in quell'angolo rivolgendo a tutti un sor­riso smagliante.Qualcosa si raggomitolava contro il vetro inondato della finestra della cucina. Sospirava, piangeva, bussava continua­mente, schiacciato contro il vetro; ma Timothy non riusciva a capirne nulla, non vedeva nulla. Con l'immaginazione, egli era fuori a guardare dentro. Pioggia e vento lo investivano, e all'interno le tenebre punteggiate di candele erano invitanti. Si danzavano dei valzer, alte e sottili figure volteggiavano al suono di una musica esotica. Dalle bottiglie alzate scintilla­vano stelline di luce, piccole zolle di terra si sgretolavano dai caratelli, e un ragno cadde e si allontanò silenzioso sgambet­tando sul pavimento.Timothy rabbrividì. Era di nuovo dentro casa, la mamma lo chiamava, gli gridava di correre qua, di correre là, di aiu­tare, di servire, fuori della cucina adesso, va' a prender que­sto, va' a prender quello, porta i piatti, ammucchia il cibo, e così via... la festa si svolgeva intorno a lui ma non per lui. De­cine di persone torreggianti si stringevano, lo spingevano, l'i­gnoravano.Alla fine, egli si girò via e sgusciò su per le scale.Chiamò piano: «Cecy. Dove sei adesso, Cecy?».Ella attese a lungo prima di rispondere. «Nella Imperiai Valley» mormorò fiocamente «accanto al Salton Sea, presso le molfette, fra i vapori, nel silenzio. Sono dentro la moglie d'un coltivatore. Sono seduta sotto una veranda. Posso farla muovere se voglio, o farle fare e pensare qualsiasi cosa. Il so­le sta tramontando.»«Com'è lì, Cecy.»«Si odono i sibili delle salse» ella disse piano, come par­lando in chiesa. «Bolle grigie di vapore fanno capolino nei fanghi come se degli uomini calvi si levassero nello sciroppo denso, con la testa per prima, laggiù nei canali ribollenti. Le teste grigie si lacerano come un tessuto di gomma, si afflo­sciano con rumori simili a quelli prodotti dal moto di labbra bagnate, e dal tessuto strappato sfuggono piumacchi leggeri di vapore. C'è continuamente un'odore profondo di zolfo che brucia. Il dinosauro bolle qui da dieci milioni di anni.»«Non ha ancora finito, Cecy.»«Sì, ha finito, completamente.» Le labbra calme da son-   j nambula di Cecy sorrisero lievemente. Le parole cadevano   ! lente dalla bocca che le formava. «Sono dentro il cranio di questa donna e guardo; vedo questo mare immoto, così tran-   < quillo da far paura. Aspetto seduta sotto la veranda il ritorno   ! di mio marito. Ogni tanto un pesce salta fuori e ricade, deli­neato dal lume delle stelle. La valle, il mare morto, le rare auto, la veranda di legno, la mia seggiola a dondolo, io, il silenzio.»«E ora, Cecy.»«Mi alzo dalla seggiola» ella disse.«Sì?»«Vado via dalla veranda, verso le salse. In alto volano ae­rei, come uccelli primordiali. Poi silenzio, tanto silenzio.»«Quanto tempo starai dentro di lei, Cecy?»«Finché non avrò ascoltato, visto, sentito abbastanza: fin­ché non avrò in qualche modo cambiato la sua vita. Mi al­lontano dalla veranda, lungo i tavolati. Il mio piede colpisce le assi di legno stancamente, lentamente.»«E adesso?»«Adesso i vapori di zolfo mi circondano. Guardo le bolle che si spaccano e si levigano. Un uccello sfreccia con uno   ] strido accanto alla mia tempia. Improvvisamente sono nel-  \ l'uccello e volo via! E nel volare, dentro i miei nuovi occhiet-   ì ti come perline di vetro, vedo sotto di me una donna, su una passerella di tavole, che fa uno due tre passi avanti verso i   i fanghi delle salse. Odo un rumore come di un macigno tuffa-   j to nelle profondità fuse. Continuo a volare, torno indietro   ] con un'accostata d'ala. Vedo una mano bianca simile a un ra-  i gno, che si contorce e scompare nel grigio stagno di lava. La j lava si richiude ermeticamente. Ora volo a casa, presto, pre­sto, presto!»Qualcosa picchiò forte contro la finestra, Timothy sussultò.Cecy spalancò gli occhi, lucenti, brillanti, felici, esultanti.«Eccomi a casa!» disse.Dopo un silenzio, Timothy si azzardò a dire: «Il Raduno è in corso. Sono venuti tutti».«Allora, perché sei qua di sopra?» Gli prese la mano. «Be', domanda.» Sorrise con arguzia. «Domanda quel che sei ve­nuto a domandare.»«Non sono venuto a domandare nulla» egli disse. «Be', quasi niente. E... Oh, Cecy!» Gli uscì tutto in un flusso rapi­do. «Voglio fare qualcosa, alla festa, che li induca a guardar­mi, qualcosa che mi faccia valere quanto loro, qualcosa che mi faccia partecipare ed essere dei loro; ma non c'è nulla ch'io possa fare, e mi fa un'impressione strana, e, be', ho pensato che forse tu...»«Forse» ella disse, chiudendo gli occhi e sorridendo inter­namente. «Sta su ben dritto. Dritto e molto fermo.» Egli ob­bedì. «Adesso, chiudi gli occhi e cancella il tuo pensiero.»Egli stette dritto dritto senza pensare a nulla, o almeno credendo di non pensare a nulla.Ella sospirò. «Andiamo abbasso, adesso, Timothy?» Come una mano in un guanto, Cecy era dentro di lui.«Guardate tutti!» Timothy alzava il calice di liquido rosso e caldo. Lo alzava così da far voltare tutti quanti a guardarlo. Zie, zii, cugini, fratelli, sorelle!Lo tracannò d'un fiato.Tese una mano verso sua sorella Laura. Ne tenne fermo e imprigionato lo sguardo, sussurrando contemporaneamente con una voce insinuante che la costringeva a rimanere muta e impietrita. Si sentiva alto come gli alberi, nell'andare verso di lei. La festa aveva rallentato il proprio ritmo e, da ogni la­to, attendeva, osservando. Visi si affacciavano a sbirciare da tutte le stanze. Non ridevano affatto. La mamma aveva un volto attonito. Il babbo guardava, sbalordito ma soddisfatto e sentendosi più orgoglioso di momento in momento.Egli morse Laura, dolcemente, sopra la vena iugulare. Le fiammelle delle candele ondeggiavano come ubriache. I parenti guardavano da tutte le porte. Egli si fece saltare in bocca dei funghi velenosi, li in­goiò, poi si mise a girare sbattendo le braccia contro i fian­chi. «Guarda, zio Einar! So finalmente volare!» Le sue mani continuavano a sbattere, i suoi piedi pompavano su e giù, i volti scorrevano via in un lampo.Svolazzando in cima alle scale, egli udì il grido di sua madre: «Timothy, fermati!» giù giù in basso. «Ehi!» gridò Timothy e dall'alto del pozzo delle scale saltò, percuotendo l'aria.A metà della discesa, le ali che credeva di possedere si dis-solsero. Egli urlò. Zio Einar lo afferrò al volo.Timothy si dimenava, sbiancato, nelle braccia che l'aveva­no ricevuto. Una voce, non invitata, uscì dalle sue labbra. «Qui parla Cecy! Qui parla Cecy! Venite tutti su a trovarmi, prima camera a sinistra!» Seguito da un trillo acuto di risa che Timothy cercò d'interrompere con la lingua.Tutti ridevano. Einar lo posò a terra. Correndo attraverso il buio incalzante man mano che i parenti affluivano di so­pra verso la camera di Cecy per congratularsi con lei, Ti­mothy aprì violentemente la porta d'ingresso.«Cecy, ti odio, ti odio!»Accanto all'albero di sicomoro, nell'ombra profonda, Ti­mothy risputò fuori il pranzo, singhiozzò amaramente e si rotolò in un mucchio di foglie d'autunno. Poi giacque, im­mobile. Dal taschino del giubbetto, uscendo dalla scatoletta di fiammiferi che usava come ricovero, il ragno strisciò avanti. Camminò lungo il braccio di Timothy. Andò in esplo­razione su per il collo fino all'orecchio, e vi entrò per fargli il solletico. Timothy scosse la testa: «No, Ragno, no».Il tocco leggero come una piuma di un'antenna che inve­stigava il timpano fece rabbrividire Timothy. «No, Ragno!» Singhiozzava un po' meno.Il ragno si spostò giù lungo la guancia, andò a mettersi sotto il naso del ragazzo, guardò dentro le narici quasi per cercare il cervello, poi si arrampicò morbidamente andando a porsi sul dorso del naso, dove si accovacciò a sbirciare Timothy con i suoi occhi verdi come gemme, così che alla fine Timothy si riempì di un ridicolo riso. «Vattene, Ragno!»Timothy si levò a sedere, facendo frusciare le foglie. La terra era molto illuminata di luna. Udiva venire una fioca ba­raonda dalla casa, in cui si giocava a "Specchio, specchio". I celebranti gridavano, con voce un po' attutita, nel cercare d'identificare tra loro quelli il cui riflesso non appariva né mai era apparso in uno specchio.«Timothy.» Le ali di zio Einar si allargarono, si contrasse­ro e rientrarono con un suono di timpani. Timothy si sentì strappare dal suolo come un fiorellino di digitale, e mettere sulla spalla di zio Einar. «Non te la prendere, nipote Ti­mothy. A ciascuno il suo, ciascuno a suo modo. Per te le cose sono di gran lunga migliori. Piene di possibilità. Per noi il mondo è morto. L'abbiamo visto tanto, credimi. La vita è mi­gliore per coloro che ne hanno meno da vivere. Vale di più per grammo, Timothy, ricordatelo.Per il resto delle nere ore piccole dopo mezzanotte, zio Ei­nar lo condusse in giro per la casa di stanza in stanza in­trufolandosi e cantando. Un'orda di nuovi arrivi riaccese l'al­legria. C'era la bis-bis-bis e mille altre volte bis-bisnonna, drappeggiata nei paludamenti funerari egizi. Non diceva pa­rola: giaceva, dritta e rigida come un'asse per stirare bruciac­chiata, contro la parete, e le sue occhiaie facevano da coppa a un lontano, saggio, silenzioso luccichio. Alle quattro del mattino, ora di colazione, la mille volte e rotti bisnonna fu seduta, rigida, a capo della più lunga tavolata.I numerosi cuginetti facevano baldoria alla patera di cri­stallo del punch. I loro occhi lucenti a nocciolo d'oliva, i loro visi conici e diabolici sotto i ricci bronzei aleggiavano sulla tavola delle bevande, e i loro corpi duro-soffici, da ragazzo-ragazza, lottavano fra loro, con il progredire della piacevole e solenne sbronza. Il vento soffiava più alto, le stelle ardeva­no con fiammeggiante intensità, il chiasso raddoppiava, le danze acceleravano, il bere diventava più deciso.
Per Timothy c'erano mille cose da udire e da vedere. Le molte tene­bre s'intorbidivano, ribollivano, le molte facce passavano e ripassavano...«Ascoltate!»L'adunanza trattenne il fiato. Lontano lontano l'orologio del palazzo comunale rintoccava le sei. La festa era sul fini­re. A tempo, sul ritmo dei rintocchi, le loro cento voci si mi­sero a cantare canzoni vecchie di quattrocento anni, canzoni che Timothy non poteva conoscere. Con le braccia intreccia­te, in lento girotondo, cantavano, e da qualche parte nelle fredde lontananze del mattino l'orologio della città terminò i suoi rintocchi e tacque.Cantava anche Timothy. Non conosceva le parole né l'aria, eppure gli venivano piene, alte, buone. Ed egli guardava la porta chiusa in cima alle scale.«Grazie, Cecy» bisbigliò. «Sei perdonata. Grazie.»Poi si lasciò andare tranquillamente, permettendo alle pa­role d'uscire liberamente, con la voce di Cecy, dalle sue labbra.Si scambiavano addii, in un gran brusio. La madre e il pa­dre stavano in piedi sulla soglia, per stringere la mano e dare un bacio, a turno, a ciascun parente in partenza. Oltre la porta aperta il cielo si tingeva dei colori dell'oriente. Entrava un vento freddo. E Timothy si sentì prendere e collocare in un corpo dopo l'altro, sentì che Cecy lo ficcava nella testa di zio Fry, cosicché egli guardava da un volto rincartapecorito, poi balzava in un turbine di foglie, alto sopra la casa e sopra le colline che si destavano...Poi, muovendosi a lunghi passi su un sentiero, si sentì gli occhi rossi e brucianti, il pelo brinato dal mattino, mentre all'interno del cugino William ansava attraverso una depres­sione e scompariva...Come una pietruzza nella bocca di zio Einar, Timothy volò in un tuono palmato che riempiva il cielo. Poi, fu di ri­torno, e per sempre, nel proprio corpo.Nell'alba avanzante, quei pochi rimasti per ultimi si ab­bracciavano piangendo e pensando che il mondo stava diventando un luogo meno adatto a loro. In altri tempi s'incon­travano ogni anno, ma ora passavano decenni senza il rito di riconciliazione. Qualcuno gridò: «Ricordate, ci ritroviamo a Salem nel 1970!».Salem. La mente confusa di Timothy rimuginava su que­ste parole. Salem, 1970. Ci sarebbero stati lo zio Fry, la mille-voltebisnonna nelle sue bende funerarie avvizzite, ci sareb­bero stati la mamma, il babbo, Ellen, Laura, Cecy e tutti quanti. Ma, lui, ci sarebbe stato? Poteva essere certo di vive­re fino a quella data?In un'ultima raffica se ne andarono tutti, cormorani, mammiferi svolazzanti, foglie appassite, rumori lamentosi e conglomerati, notti fonde, pazzie e sogni.La madre chiuse la porta. Laura diede di piglio a una sco­pa. «No» disse la madre. «Faremo pulizia stanotte. Adesso abbiamo bisogno di dormire.» E la Famiglia svanì in cantina e di sopra. Timothy, a testa bassa, attraversava l'atrio disse­minato di rifiuti. Nel passare davanti a uno specchio da fe­sta, egli vi scorse la pallida mortalità del suo viso, freddo e tremante.«Timothy» disse la mamma.Si avvicinò e gli sfiorò il viso con la mano. «Figlio» gli dis­se «ti amiamo. Ricordatelo. Tutti ti amiamo. Nonostante che tu sia diverso, nonostante che tu ci lascerai un giorno.» Lo baciò sulla guancia. «Se e quando morirai, le tue ossa ripose­ranno indisturbate, ci penseremo noi. Riposerai comoda­mente per sempre, e ogni vigilia d'Ognissanti verrò a trovarti e a rimboccarti affinché tu sia più sicuro.»La casa era silenziosa. Lontano lontano il vento passava sopra una collina con il suo ultimo carico di pipistrelli oscu­ri, echeggiami, squittenti.Timothy salì gli scalini a uno a uno, piangendo fra sé per tutta la strada.



Per saperne di più:
Copertina libro: Il paese d’ottobre”.  Ray Bradbury Ray Bradbury

Bianco su nero

"Le civette e altre creature della notte".Desmond Morris. Castelvecchi Editore

 

“Pagina 117:
Nello Zimbabwe, solamente i barbagianni sono considerati uccelli delle streghe. Quando si è chiesto il motivo di questa discriminazione per una specie in particolare, un ornitologo del posto ha risposto: “Perché sono bianchi”. Questa gente è convinta che portino sfortuna e quindi li uccide appena possibile. Gli stregoni locali usano i loro becchi e artigli per fare dei potenti preparati a danno di qualcuno…”

 

 
Per saperne di più:
copertina Libro: Desmond Morris


Bianca alba mia

Cinquanta madrigali inediti del signor Torquato Tasso alla Granduchessa Bianca Cappello dei Medici
Nella seconda metà del 1500, il poeta Torquato Tasso dedicò madrigali e canzoni a Bianca Cappello, divenuta Granduchessa di Toscana.
Donna di grande bellezza, Bianca era dotata anche di una particolare sensibilità alle sofferenze altrui, forse perché aveva avuto lei stessa una vita difficile e contrastata.  Il poeta vede in lei una figura luminosa, stella luna aurora, capace  di elevare la mente e i sentimenti di chi l’ammira.

In me stesso m’esalto
che quando in tanta luce il guardo invio
tanto mi sento alzar, ch’io son più ch’io.

Le immagini legate alla bianchezza sono pervase di luminosità, gentilezza  e splendore: allusione al candore della carnagione di Bianca (considerata a quel tempo come dote di particolare fascino), nonchè alle sue qualità spirituali.

Nubi lucide e lievi
che tante avete in ciel vaghe figure
e contra ‘l sol tanti colori e tanti;
di questa ch’è sì bella e lui somiglia
e pur gran meraviglia
prendete, o nubi, ancora i bei sembianti.
Nubi, nubi volanti
acque piovete a lei più dolci e pure  
 Mirate, in sul mattin Candida splende
lucidissima  stella
Non  Vener no, ma luce alta novella
che  di sovrano amor l’anima accende
Tu, bianca e vaga luna
ch’hai tanti specchi quanti sono i mari
Mira questo candor  ch’è senza pari
Qual miracolo, amore
Se la bianca Alba mia
De l’alba in cielo che l’oriente aprìa
luce spargèa maggiore.
Non ha, non ha per  sé l’alba splendore
dal Sol ben ella il prende
Ma la Bianca Alba mia per sé risplende.

 
Per saperne di più:
Torquato Tasso


Azzurrina e la visitatrice

"Non restate in silenzio". Adriana Lorenzi . Edizione Le Lettere 2008.  pp. 68-85.
 

Dentro il  suo castello ormai inserito nelle mappe turistiche della Romagna, le uniche novità per Azzurrina sono appunto i visitatori, che,  incuriositi ma distratti, si affollano intorno alla guida  per ascoltare la leggenda del suo fantasma.
In certi giorni particolari si mette a seguirli e a volte le accade di captare la presenza di qualcuno che sta in disparte e tenta di entrare in contatto con lei e di “calpestare la riga” che separa  la vita visibile dalla vita invisibile, la storia dall'immaginazione.


Per saperne di più:
copertina libro: Non restare in silenzio di Adriana Lorenzi.  Adriana Lorenzi

Presentazione libro

Azzurrina Malatesta

Azzurrina: una fiaba

Una luminescenza impressionante

"Nettare in un setaccio" - pp. 162-167 -.  Kamala Markandaya. Edizione Feltrinelli

Nettare in un setaccio" è il  romanzo  più noto della scrittrice indiana Kamala Markandaya, che uscì in Italia nel 1956 nella traduzione dello scrittore Luciano Bianciardi, autore de "La vita agra".Il titolo è tratto da un verso del poeta inglese S.T: Coleridge:  "Lavoro senza speranza versa nettare in un setaccio, nè vive la speranza senza uno scopo".Il racconto è ambientato in un villaggio dell'India,  prima della lotta per l'indipendenza, quando  i propritetari terrieri  cominciarono a vendere le terre per destinarle all'industria  o a coltivazioni estensive, cacciando i contadini che vivevano del loro lavoro.La voce narrante è quella di una contadina che continua ad alimentare la sua speranza  e i suoi legami familiari anche nelle condizioni più difficili.In queste pagine, descrive la nascita del suo nipotino, che viene al mondo albino. Il racconto è condotto con realismo, attenzione  e serenità ammirevoli.

E' sorprendente notare come tutti i particolari del racconto, comprese le reazioni dei familiari e dei vicini, siano di sconcertante attualità, e parlino ancora alla nostra sensibilità nonostante la distanza nello spazio e nel tempo.

 

Quando raccolsi il bambino e lo presi in braccio, le paure, che fino allora erano state senza nome, mi investirono di nuovo, mi gridarono la loro condanna, non furono più senza nome.Non volevo che sua madre lo vedesse. Lo lavai lentamente e massaggiai con olio il suo corpicino, cercando di attenuare la sua bianchezza, sperando di dare colore alla sua pelle, mentre lui strillava vigorosamente, perché era un bambino sano. Infine, la madre lo reclamò. Lo avvolsi accuratamente in un panno prima di porgerglielo, sperando – sperando ancora – che non se ne accorgesse.
“Tuo figlio” – dissi, avvicinandole il fagotto, ansiosa.
Lo prese sorridendo e sospirò: “Che bel piccino – disse, fissando con amore il suo visetto – chiaro,  come un fiore."
 Chiaro! Anche troppo chiaro. Solo lei non vedeva quanto fosse innaturale quella chiarezza, e non notava che i capelli che spuntavano morbidi e radi  sulla sua testa erano del colore del chiaro di luna e i  suoi occhi erano rosa. Talvolta mi pareva che fosse impazzita: come poteva non vedere quello che agli altri era così evidente, oppure, mi chiedevo,  se la sua non fosse una tragica finzione dettata dall’orgoglio materno, sostenuta da chissà quale sforzo sovrumano. Tuttavia, se simulava, simulava bene: nel suo viso non traspariva segno di dolore o di paura. Era felice, come un uccello col suo piccolo che canta, gioisce con lui e lo vezzeggia come il più bel bambino che una donna abbia mai dato alla luce.
Forse, per lei era così: quell’ enorme peso non gravava sulle sue spalle, ma sopra di noi, soprattutto su Nathan.
“Ha perso la ragione – diceva – non vede suo figlio  come è, ma come lo avrebbe voluto. Per lei è soltanto chiaro, mentre invece non sembra altro che un topo bianco. Ella ha fatto del male a se stessa e al bambino e ora preferisce impazzire piuttosto che guardare in faccia la verità … La colpa è mia – mi disse -  girando lentamente sui talloni – avrei dovuto impedirlo. Che cosa crudele, al tramonto della nostra vita.”
“ Crudele sì, ma non insopportabile. Ira è felice e il bambino è sano.”
“L’ho visto al sole – riprese Nathan tristemente – fugge la luce e cerca l’oscurità, dove  si trova meglio. Per quanto piccolo, comincia già a rendersi conto della sua anormalità. “
“ Che sciocchezze dici – intervenni – rifugge la luce perché ha gli occhi deboli. Me lo ha detto Kenny, che questi bambini fanno sempre così “
“ Può darsi – replicò – chi lo sa? Ma, qualunque sia la ragione, è una cosa spaventosa a vedersi. Per gli uomini c’è la luce del sole, l’oscurità è fatta per i pipistrelli, le serpi, gli sciacalli e altre creature del genere.
”Il dolore lo faceva esagerare. Il bambino evitava solo la luce diretta del sole. Nella capanna, all’ombra di un albero, era perfettamente contento e se ne stava disteso a terra o attaccato a un ramo a succhiarsi le dita dei piedi e a ciangottare, come qualsiasi altro bambino.
Anch’io preferivo non vederlo nella piena luce del sole: la sua pelle chiara e trasparente come una membrana non faceva resistenza alla luce che gli trapassava profondamente la carne, illuminandola di una lucentezza spaventosa.
Inoltre, si scottava facilmente: bastava che stesse un’ora al sole che tante chiazze rosse e squamose gli spuntavano sul collo e sulla fronte e diventava nervoso. Tutti i miei figli, invece, erano cresciuti all’aperto e al sole s’erano irrobustiti.
La notizia raggiunse presto i posti più lontani e la gente venne a vedere il piccolo. Ne veniva tanta, sempre di più, col viso acceso di curiosità:  una curiosità che non pareva mai soddisfatta, per quanto stessero a guardarlo con gli occhi di fuori. Alla fine, se ne andavano via, facendo un mucchio di commenti per descrivere quel povero ranocchio albino. Alcuni erano più gentili, molti mostravano una compassione facile e inutile. Tutti se ne ripartivano con quell’evidente sollievo di chi ha visto qualcuno che sta peggio di lui.. […]
“E’ vero del bambino? La gente dice che è bianco come il latte.”
“E’ chiaro – disse Ira come sempre – Guardalo!”
E gli mostrò il bambino addormentato fra le sue braccia.
Kali si sporse tutta tremante dall’eccitazione, e in quel momento sfortuna volle che il piccino si svegliasse. Aprì i suoi deboli occhi rosa e cominciò a strillare vigorosamente. Kali arretrò d’un passo, come se qualcuno l’avesse aggredita e tutta la sua compassione svanì.
“ Ha un aspetto strano – disse con tutta franchezza – non è normale. Avete mai sentito parlare di un bambino con gli occhi color di rosa? “
Non sapevo che dire. Nathan guardava la donna astiosamente: non gli era mai piaciuta. Ira aveva sul volto un’espressione tesa, rigida, difensiva,  come se avesse ricevuto un colpo e stesse chiedendosi dove sarebbe caduto il prossimo.
“Allora, non lo sa – pensavo con un sentimento che somigliava al sollievo  - o, almeno, non sa tutto: nasconde bene quello che sa.”
Continuava il silenzio: ognuno aveva paura di parlare e i pensieri ondeggiavano nell’aria, gli occhi vagavano altrove e si abbassavano al suolo.  Poi sentii Selvam che si schiariva la voce  e subito tutte le teste sorprese, sollevate, vigili dopo quella sospensione, si volsero a lui.
“ E’ solo questione di colore – disse – o meglio: di mancanza di colore… Si tratta solo di abituarcisi. E poi, chi ha detto che questo sia il colore giusto e quello no?”
Le parole di un ragazzo (Selvam non aveva ancora sedici anni) ci fecero vergognare tutti.“.. ma… rosa”  balbettò Kali.
“ Un bambino  dagli occhi rosa non è peggio di uno dagli occhi castani -  disse, con uno sguardo freddo di rimprovero-  avresti dovuto capirlo con il tuo istinto di donna, se nessun altro te lo avesse detto.”
Le voltò le spalle con disprezzo e porse le dita al bambino.
Il piccolo, che fino allora aveva urlato robustamente, cominciò a calmarsi, emise due o tre vagiti, poi la sua bocca si aprì in una specie di sorriso e le sue dita si afferrarono a quelle di Selvam. […]
La sua simpatia per il figlio di Ira avvicinò sempre più Selvam alla ragazza. Fin dalla nascita  egli non si era fatto caso dell’albinismo del piccolo, lo accettava senza pensarci. Fin dall’inizio,  trattò Sacrabani  proprio come un bambino normale.
Peccato che questa fosse una battaglia perduta.  
Un atteggiamento simile, da parte sua e da parte nostra, non poteva bastare a convincere tutti gli altri.
Sacrabani era  isolato in partenza: un corvo bianco in  uno stormo di corvi neri, un chicco d’orzo in mezzo al riso.
Da quando ebbe quattro anni, Sacrabani dovette adattarsi  a fare il parassita, sempre ai margini della vita degli altri.
A causa della sua diversità, i bambini lo escludevano dai loro giochi: qualche volta, se mancava un giocatore, lo invitavano a unirsi a loro, ma non gli permettevano, per nessuna ragione, di entrare nel gioco senza il loro permesso. E così, con la speranza di essere chiamato, se ne gironzolava nei paraggi, umile e paziente.
Del resto, bastava la sua anomalia a metterlo in una condizione di inferiorità: la sua pelle non sopportava il sole e la luce gli feriva gli occhi. A vederlo accovacciato all’ombra, con il viso arrossato e gli occhi lacrimosi, quelli più grandi lo insolentivano, anziché provare pietà per lui.
Povero piccolo, doveva anche sopportare la curiosità di quelli che non lo avevano mai visto prima: lo fissavano, mormorando,  dandosi colpetti  di gomito  e  bisbigliando, mentre quelli che lo conoscevano facevano a gara per informarli.
Poi un giorno, spinto da chissà quali ingiurie, cominciò a fare domande, le prime di una lunga serie.   


Per saperne di più: 
 copertina libro: Nettare in un setaccio di Kamala Markandaya Kamala Markandaya

Scheda letteraria

Luciano Bianciardi

 

Bionda testa forestiera

"L’isola di Arturo "  Elsa Morante

 La Bellezza
Lui avanzava risoluto, come una vela nel vento, con la sua bionda testa forestiera. […]La prima ragione della sua supremazia su tutti gli altri stava nella sua differenza, che era il suo più bel mistero. . Egli era diverso da tutti gli uomini di Procida, come dire da tutta la gente che io conoscevo al mondo,  e anche (o amarezza), da me. Anzitutto, egli primeggiava fra gli isolani per la sua statura, (ma questa sua altezza si rivelava solo al paragone, vedendo lui vicino ad altri. Quando stava solo, isolato, appariva quasi piccolo, tanto le sue proporzioni erano graziose).   Oltre alla statura, poi,  lo distinguevano dagli altri  i suoi colori:  era chiaro come le perle. E io  vedevo in ciò quasi il segno di una stirpe non terrestre: come s’egli fosse fratello del sole e della luna. I suoi capelli, morbidi e lisci, erano di un colore biondo opaco, che si accendeva, a certe luci,  di riflessi preziosi; e sulla nuca, dov’erano più corti,  quasi rasi, erano proprio d’oro.. Infine,  i suoi occhi, erano di un turchino-violaceo, che somigliava al colore di certi specchi di mare intorbidati dalle nuvole.

Assunta
[…] Ecco, dunque, a che s’era ridotta la mia vita: che mio padre mi respingeva, la mia matrigna mi teneva lontano peggio di un serpente. Qualsiasi cosa, ad ogni modo, è più augurabile che far pietà: e io non facevo pietà a nessuno. La sera, tornavo a casa con arie di mistero e di ribalderia, come se avessi trascorso la giornata a dirigere bande di rapinatori, navi pirate. In certi momenti, mi sarebbe piaciuto d’essere un vero mostro di bruttezza: per esempio, mi raffiguravo sotto forma di un albino, con zanne al posto dei denti, e un occhio celato da una benda nera.
A questo modo, col solo mostrarmi, avrei fatto inorridire tutti di spavento. […]



Per saperne di più:
copertina libro: L'isola di Arturo di Elsa Morante.  Elsa Morante


 

Tutto sul Bianco

"I colori del nostro tempo". Michel Pastoureau. Edizione Ponte alle Grazie.

 

Lo storico e antropologo francese Michel Pastoureau ha dedicato una grande parte della sua opera allo studio del simbolismo dei colori nella storia occidentale.
"I colori del nostro tempo" . L'opera è strutturata come un dizionario, che dà una pronta risposta enciclopedica a qualunque curiosità riguardo alla storia e al valore simbolico dei colori. 
 

Ecco un possibile quadro riassuntivo delle differenti funzioni e dei diversi significati del colore bianco nella cultura occidentale così come vengono presentati nelle voci del presente dizionario:



1. Colore della purezza, della castità, della verginità, dell’l'innocenza:
• Abiti ecclesiastici bianchi, colore liturgico.
• Abiti per battesimi e nozze (abito bianco solo a parti¬re dal XIX secolo). A Roma, toga bianca dei «candi¬dati» {candidus).
• •  Bianco dell'agnello, delle vergini, delle vestali ecc.

2.. Colore dell'igiene, della pulizia, del freddo, di ciò che è sterile:
• L'igiene: i saponi, i detersivi sono bianchi. Per secoli, lenzuola, biancheria e tessuti posti a diretto contatto con il corpo sono stati di colore bianco.
• Colore del freddo, della neve, del Nord: caramelle alla menta (forte). Frigorifero.
• Elettrodomestici che conservano o lavano. Cucina, bagno: prevalenza del colore bianco.
• Colore della semplicità, della discrezione, della pace.
• Gerarchia dei codici di colore: il bianco segnala sem¬pre il livello più semplice  Cintura
 bianca, pista bianca.
• Modestia dell'aspetto: in bianco.
• Discrezione, neutralità. Bandiera bianca. Idea di pace (e di rinuncia).

3. Colore della saggezza e della vecchiaia:
• Capelli bianchi, persone anziane (il bianco riesce a es¬sere nello stesso tempo il colore dell'infanzia e quello della vecchiaia).
• Colore dei vecchi saggi, dei folli, dei druidi, dei maghi.

4.. Colore dell'aristocrazia, della monarchia
• Il bianco, colore del re. I partiti realisti. La bandiera bianca nella Francia del XIX secolo.
• Eleganza degli abiti bianchi. Camicia bianca.
• Colletti bianchi nell'industria (in contrapposizione al¬le «tute blu»).

5. Assenza di colore:
• I fantasmi, le apparizioni. La morte.
• La paura, l'inquietudine.
• Il grado zero del colore. L'opposizione bianco e nero/ colori.
 
6. Colore del divino:
• Il bianco, colore delle divinità, degli angeli.
• L'eternità, il paradiso.
• La felicità.


 Per saperne di più:
copertina libro di Michel Pastoureau  Michel Pastoureau

presentazione libro

 

 

L'odore dell'umano

“Il profumo” - pp. 15-18 e 154-159 -. Patrick Suskind. Edizioni TEA

Nella strada più puzzolente del mondo nasce un bambino che si scopre privo di un attributo fondamentale della specie umana: l’odore. Esiste – dice l’autore – uno speciale odore, comune a tutti gli esseri umani,  che permette di riconoscersi reciprocamente.Su questa “essenza umana” si forma poi l’odore individuale, proprio di ciascuna persona.Il piccolo ha un talento particolare per i profumi e  se ne serve per compensare la sua mancanza fondamentale. Purtroppo non saprà darsi dei limitiIl testo che ho estrapolato descrive in modo molto persuasivo la sensazione di una mancanza “essenziale”.Dal romanzo è stato tratto un celebre film, che mette in risalto la forte trama narrativa, ma non rende conto di questa profonda  riflessione sulla natura umana

 
 
“”E’ posseduto dal demonio”“Impossibile! E’ assolutamente  impossibile che un lattante sia posseduto dal demonio…. Ha forse un cattivo odore?”“Non ha nessun odore”, disse la balia.“Ecco, vedi? Questo è un segno inequivocabile. Se fosse posseduto dal demonio dovrebbe puzzare.”E per tranquillizzare la balia e nel contempo dar prova del proprio coraggio, Terrier sollevò il canestro e se lo mise sotto il naso “Non sento niente di particolare”, disse, dopo aver annusato per un momento “ad ogni modo, mi sembra che dalle fasce provenga un certo odore.”“Non è questo”, disse la balia, brusca, e allontanò il canestro da sé. “i suoi escrementi hanno un buon odore. E’ lui, il bastardo, che non ha odore.”“Perché è sano”, gridò Terrier, “perché è sano, ecco perché non ha odore!. Soltanto i bambini malati hanno odore. Perché dovrebbe puzzare? Puzzano i tuoi figli?”“No”, disse la balia. “I miei figli hanno l’odore che tutti i bambini devono avere”“Dunque tu affermi di sapere che odore dovrebbe avere un bambino, che comunque è pur sempre -  questo vorrei ricordartelo, tanto più quando è battezzato – una creatura di Dio?  “”Sì”, disse la balia, “questo lattante mi fa ribrezzo perché non ha l’odore che i bambini devono avere.”“Ma dimmi, per favore, : che odore ha un lattante quando ha l’odore che tu ritieni debba avere? Eh?”La balia esitò. Sapeva bene che odore avevano i lattanti, lo sapeva benissimo, ne aveva nutriti, cullati, curati, baciati già a dozzine… di notte poteva trovarli a naso, l’odore del lattante l’aveva chiaro anche adesso nel naso. Ma non l’aveva mai definito con parole.“Dunque”, cominciò la balia, “non  è molto facile da dire perché…perché non hanno lo stesso odore dappertutto, benché dappertutto abbiano un buon odore, padre, capisce, prendiamo i piedi ad esempio… lì hanno un odore come di pietra calda liscia…no, piuttosto di ricotta,… oppure di burro, di burro fresco, sì, proprio così, sanno di burro fresco. E i loro corpi hanno l’odore di…di una galletta quando è inzuppata nel latte.
E la testa, in alto, dietro, dove i capelli fanno la rosa,… hanno un odore di caramello, così dolce, così squisito. Una volta sentito questo odore bisogna amarli, che siano figli propri  o di altri.  E questo è l’odore che devono avere i neonati, questo e nessun altro. E se non hanno questo odore, se sulla testa non hanno nessun odore, ancor meno dell’aria fresca, come questo qui, il bastardo, allora...allora..."

 Con il poco che c’era di olii di fiori, di acque e di spezie, un profumiere medio non avrebbe potuto fare grandi cose. Tuttavia Grenouille, al primo fiuto,  capì che le sostanze presenti  erano più che sufficienti per i suoi scopi. Non voleva creare un grande profumo; non voleva miscelare un’acquetta di prestigio, qualcosa che emergesse dal mare della  mediocrità e ammansisse la gente. Le comuni essenze di neroli, eucalipto e foglie di cipresso dovevano soltanto nascondere il vero profumo che si era proposto di creare: il profumo dell’umano.Anche se per il momento sarebbe stato soltanto  un cattivo surrogato, voleva appropriarsi dell’odore degli uomini, che lui stesso non possedeva.. Certo non esisteva l’odore degli uomini, così come non esisteva il volto umano. Ogni uomo aveva un odore diverso, nessuno lo sapeva meglio di Grenouille, che conosceva migliaia e migliaia di  odori individuali e distingueva al fiuto  gli esseri umani già dalla nascita.. E tuttavia esisteva una nota fondamentale dell’odore umano, del resto abbastanza semplice: una nota fondamentale di sudore grasso, di formaggio acidulo, ugualmente propria a tutti gli uomini e al di sopra della quale, più raffinate e più isolate, aleggiavano le nuvolette di un’un’aura individuale.Ma quest’aura, la sigla estremamente complessa, inconfondibile, dell’odore personale, era comunque impercettibile per la maggior parte degli uomini.. i più non sapevano di possederla, oppure facevano di tutto per nasconderla sotto i vestiti e sotto odori artificiali alla moda.Conoscevano bene soltanto quell’aroma di fondo, quell’esalazione primitiva d’umano, in essa soltanto si sentivano e si sentivano protetti, e chiunque emanasse quell’ effluvio comune era da essi considerato come un loro pari.Fu uno strano profumo quello che Grenouille inventò quel giorno. Fino allora non ce n’era mai stato uno più strano.Non aveva l’odore di un profumo, bensì di un uomo che ha un profumo. Quando uscì per  strada, fu colto da un’improvvisa paura, perché sapeva di emanare un odore umano per la prima volta in vita sua. A lui però sembrava di puzzare, di puzzare in modo assolutamente ripugnante. E non riusciva a figurarsi che altri non trovassero ugualmente ripugnante il suo odore, e non osò dirigersi subito verso l’osteria, dove lo stavano aspettando.Gli sembrava meno rischioso prima sperimentare la nuova aura in un ambiente anonimo. Fin dall’infanzia era abituato al fatto che le persone che gli passavano accanto non lo notavano in alcun modo, non per disprezzo, come aveva creduto un tempo,  ma perché proprio non si accorgevano della sua esistenza. Non c’era stato spazio intorno a lui, non onda che lui mandasse nell’atmosfera, non c’era stata ombra, per così dire, che avesse potuto gettare sul volto degli altri.Ma ora, Grenouille avvertì e constatò con chiarezza – e ogni volta che lo constatava  era pervaso da un forte sentimento d’orgoglio -  che esercitava un effetto sulle persone. Quando passò accanto a una donna china sul bordo di una fontana, notò che essa alzava un attimo il capo per vedere chi fosse e poi, evidentemente tranquillizzata,  si volgeva di nuovo verso la propria secchia.  I bambini che incontrava si facevano indietro, non per paura, ma per fargli posto; e anche quando uscivano di corsa dall’ingresso laterale di una casa e urtavano bruscamente contro di lui, non si spaventavano, ma sgusciavano via con naturalezza, come se avessero avuto il presentimento della sua persona che si avvicinava.Grenouille si mescolò alla folla. Diede spintoni, s’insinuò, voleva andare dove le persone erano più fitte, a contatto di pelle voleva averle, voleva sfregare il proprio profumo  direttamente contro i loro nasi. E in quello spazio angusto e stipato allargò braccia e gambe e si slacciò  il colletto, affinché il profumo potesse fuoriuscire liberamente dal suo corpo… e immensa fu la sua gioia quando si accorse che tutti quegli uomini e donne e bambini pigiati intorno a lui inalavano il suo odore come quello di un loro simile e che accettavano lui, Grenouille, la prole del diavolo, in mezzo a loro, come uomo fra uomini.

Per saperne di più:

copertina libro: IL PROFUMO di Patrick Suskind 

Patrick Suskind

 

 

 

Indice



PERLE RARE


Antologia sull'esperienza della diversità
a cura di Paola Elia Cimatti

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PREFAZIONE

INTRODUZIONE

ORRORE E SPLENDORE

Non figlio di uomo, ma degli angeli: Noè
Libro di Enoch; Apocalisse 1-14
Bianca alba mia
Madrigali di Torquato Tasso
Bionda testa forestiera
"L'isola di Arturo" di Elsa Morante
Edizione Einaudi
Orrore del bianco
"Moby Dick" di H. Melville
Edizione Feltrinelli

 


LA DIVERSITA' RACCONTATA IN MODO REALISTICO

Una disgrazia per mia madre
"La vita accanto" di Mariapia Veladiano
Giulio Einaudi Editore
Una luminescenza impressionante
"Nettare in un setaccio" di Kamala Markandaya
Edizione Feltrinelli
Una come me
"Come pietre nel fiume" di Ursula Hegi
Universale Economica Feltrinelli
Storia minima
"La lampada di Aladino" di Luis Sèpulveda
Sul pregiudizio
"Vita dei campi" in "Rosso Malpelo" di Giovanni Verga
Liberliber.it: testo integrale
L'isola dei senza colore
L'isola dei senza colore" di Oliver Sacks
Adelphi Editore

 

LA DIVERSITA' COME CHIAVE DI LETTURA

L’odore dell’umano
"Il profumo" -pp.15-18, 154-159- di Patrick Suskind
Edizioni TEA
L’uomo invisibile
"L'uomo invisibile di H. G. Wells
Gruppo Editoriale Mursia
L’unico specchio della casa
"Il paese d'ottobre" di Ray Bradbury
Edizione Fantacollana Nord
Un pipistrello saggio
"Il fantastico volo di ali d'argento" di Kemeth Oppel
Piemme Edizone
La pagina bianca
"Ultimi racconti" di Karen Blixen
Adelphi Editore
Bianco, puro, bellissimo
"Il codice da Vinci" di Dan Brown
Mondadori Editore
“… dentro restavo pallido…”
"Una storia di amore e di tenenbre" di Amos Oz
Eidione Feltrinelli
Il bianco di Kandinskij
"Lo spirituale nell'arte" di V.V. Kandinskij
Editore SE
Il brutto anatroccolo
di Hans Christian Andersen

 

 AZZURRINA: UNA LEGGENDA ITALIANA

Azzurrina Malatesta
Wikipedia
Azzurrina: una fiaba
"Azzurrina" di Angela Nanetti
Edizione Einaudi Ragazzi
Azzurrina e la visitatrice
"Non restate in silenzio"-pp. 68-85- di Adriana Lorenzi
Edizione Le Lettere

 

PER INFORMAZIONE

Far crescere un bambino con albinismo. Una guida per i primi anni
"Raising a child with albinism. A gude to the early years". NOAH
Siamo solo noi
"Siamo solo noi" di Margherita De Bac
Tutto sul bianco
"I colori del nostro tempo" di Michel Pastoureau
Edizione Ponte alle Grazie
Bianco su nero
"Le civette e altre creature della notte" di Desmond Morris
Castelvecchi Editore

L'isola dei senza colore

"L' isola dei senza colore". Oliver Sacks. Adelphi 1997

cromatopsia acromatopsia

 
pag..27
Percezione della tonalità, tessitura, del movimento e della profondità visiva.
E se fossero loro a vedere strani “noi”, distratti da aspetti banali e irrilevanti del mondo visivo e non abbastanza sensibili alla sua reale essenza visiva?
pag 35
Sensibilità e attenzione alla forma, alla tessitura, ai profili e ai margini, alla prospettiva, alla profondità e ai movimenti anche minimi

pag. 36 - 37
Mentre tornavamo a piedi all’albergo  […] cominciò a imbrunire; la luna, quasi piena, salì alta nel cielo fino a stagliarsi fra i rami di una palma.. In piedi sotto l’albero, Knut la studiava attentamente, con il monoculare, individuando mari e ombre. Poi, abbassando lo strumento e abbracciando  con lo sguardo tutto il cielo esclamò: “Vedo migliaia e migliaia di stelle! L’intera galassia!”
“E’ impossibile” – replicò Bob -  “ L’angolo sotteso di quelle stelle è sicuramente troppo piccolo, dato che la tua acuità visiva è un decimo del normale”.
Knut si diede a identificare le costellazioni nella volta celeste: alcune si presentavano completamente diverse da come egli era abituato a vederle nel cielo norvegese.. Si chiedeva se il nistagmo  non potesse avere un paradossale effetto positivo, se i movimenti a scatti dei suoi occhi non potessero  “sbavare” un’immagine puntiforme, altrimenti invisibile, con il risultato di ingrandirla., o se non intervenisse qualche altro fattore. Si rendeva conto della difficoltà di spiegare come egli potesse vedere le stelle pur avendo un’acuità visiva tanto bassa,  - e tuttavia le vedeva.
“Non male questo nistagmo, eh?” scherzò Bob.
pag. 53 – 54
“Magnifico!” sussurrò Knut, rapito, e poi “Guarda quel bambino – e quello -… e quell’altro”. Seguii il suo sguardo e improvvisamente vidi anch’io  ciò che al principio mi era sfuggito:  qua e là, fra gli altri, c’erano gruppetti di bambini che strizzavano e socchiudevano gli occhi  nel tentativo di evitare il sole intenso; uno di loro, più grandicello, portava un panno nero sulla testa. Knut li aveva visti, aveva identificato i suoi fratelli di acromatopsia già mentre usciva dall’aereo – proprio come loro si erano accorti di lui nel momento in cui scendeva dall’apparecchio strizzando gli occhi dietro le lenti scure.. Sebbene Knut conoscesse la letteratura scientifica e si fosse occasionalmente imbattuto in altri acromatopsici, non era in alcun modo preparato al colpo che avvertì nel trovarsi letteralmente circondato  da individui come lui, stranieri ai quali si sentì legato da un’immediata affinità anche se vivevano dall’altra parte del mondo. Fu un incontro ben strano quello a cui tutti noi assistemmo, fra il pallido e nordico knut, in abiti occidentali e con la macchina fotografica al collo, e i bambini acromatopsici di Pingelap, scuri e minuti. Strano sì, ma anche molto commovente.
pag.65 -66
Prescindendo dai problemi sociali che comporta, Entis non considerava l’acromatopsia come un’invalidità, sebbene spesso l’intolleranza della luce intensa e l’incapacità di vedere i dettagli fini gli creassero qualche problema.. Ascoltando queste considerazioni,  Knut annuiva: era stato molto attento a  tutto quel che diceva Entis e per molti aspetti si identificava con lui. Quando poi gli mostrò il suo monoculare, che tiene sempre appeso al collo e che per lui è quasi un terzo occhio, , il volto di Entis si illuminò di meraviglia: mettendolo a fuoco, riuscì per la prima volta a vedere le barche scivolare sull’acqua, gli alberi all’orizzonte, i volti della gente dall’altra parte della strada e perfino i dettagli della cute sui propri polpastrelli.. D’impulso, Knut si tolse dal collo il monoculare e lo regalò a Entis, che rimase senza parole, commosso: Sua moglie corse in casa e ne uscì portando una bellissima collana  di ciprie a tre giri, fatta da lei: era l’oggetto più prezioso che ci fosse in casa e ne fece solennemente dono a knut, sotto gli occhi di Entis.
Adesso Knut era in difficoltà, senza il suo monoculare.
“E’ come se gli avessi dato metà dei miei occhi, perché il monoculare mi serve per vedere.”, ma aggiunse subito, profondamente felice:  “per lui sarà tutto diverso, ora.
Io me ne procurerò un altro”.
Il giorno dopo vedemmo James che, strizzando gli occhi contro il sole, osservava un gruppo di adolescenti giocare a pallacanestro. Quando ci aveva fatto da interprete e da guida, ci era sembrato un tipo allegro, socievole, istruito, perfettamente integrato nella sua comunità; ora, per la prima volta, aveva un’aria schiva, malinconica e solitaria.  Ci mettemmo a parlare ed emerse qualche elemento in più della sua storia. Per lui, come per gli altri acromatopsici di Pingelap, la vita e la scuola erano state difficili: il sole non schermato lo accecava, letteralmente, , e in quelle condizioni non poteva uscire senza un panno scuro sugli occhi. Ciò non gli aveva consentito di unirsi ai giochi all’aperto degli altri bambini.
La sua acuità visiva era molto scarsa e, per poter leggere i libri di scuola doveva tenerli a pochi centimetri dagli occhi; siccome, però, era molto intelligente e pieno di risorse, aveva imparato presto a leggere e amava i libri. Sveglio e ambizioso, a diciassette anni James ottenne una borsa di studio per l’Università di Guam, dove passò cinque anni e si laureò in sociologia. Tornò a Pingelap pieno di idee coraggiose: voleva aiutare gli abitanti dell’isola a stimolare il commercio locale e a ottenere una migliore assistenza medica, specie per i bambini, voleva portare l’elettricità e l’acqua corrente in tutte le case, elevare gli standard didattici, introdurre  nell’isola una consapevolezza politica, assicurare che a tutti gli abitanti di Pingelap – e soprattutto agli acromatopsici -  fosse riconosciuto il diritto di ricevere l’educazione e l’istruzione che lui aveva dovuto conquistarsi lottando.
Nulla di tutto ciò era andato in porto: James aveva incontrato un’enorme inerzia e, a poco a poco, la ristrettezza di vedute dominante lo aveva fiaccato; lui stesso aveva smesso di lottare. Su Pingelap non riuscì a trovare un lavoro adeguato al suo livello di istruzione e al suo talento: l’isola, infatti, fondata su un’economia di sussistenza, non ha lavoro da offrire, a parte quello del personale sanitario, del giudice e di un paio di insegnanti.. Con il suo fare da universitario, le sue maniere e il suo aspetto nuovi,  James orami non apparteneva più del tutto al  piccolo mondo che si era lasciato alle spalle e si  trovava messo da parte, come un estraneo.
pag. 68
Knut raccontò che poco tempo prima, sua sorella Britt, per dimostrare che era possibile, aveva fatto una giacca a maglia usando lane di ben sedici tinte diverse. […] La giacca aveva splendidi disegni ispirati alle leggende norvegesi , che però erano pressoché invisibili agli occhi delle persone normali , essendo stati ottenuti  con tenui tonalità di marrone e di viola , colori non molto contrastanti. Britt, invece, che reagisce solo alle luminanze, li vedeva perfettamente. “E’ la mia arte speciale e segreta – diceva  - bisogna essere completamente ciechi ai colori per poterli osservare.


Per saperne di più:
isolasenzacolore Oliver Sac

Oliver Sacks web site
 

PREFAZIONE

Copertina dell'antologia PERLE RARE


Con un segno bianco gli antichi conservavano la memoria degli eventi rari e fortunati.

Segnali luminosi fanno ritrovare la strada nell'oscurità:
a questo servono le parole.

La percezione della diversità non si può mai dire perchè nessuno la capisce e viene a mancare il linguaggio: si finisce così per viverla di nascosto,
cercando di renderla invisibile, anche se è ben visibile a tutti.

Ho raccolto in queste pagine stralci  e recensioni di opere letterarie significative,
che parlano di albinismo esplicitamente oppure per analogia.

Per smuovere la consapevolezza e la riflessione,
che agiscano come cura di sè,
o semplicemente ... per bellezza


Questa antologia non sarebbe stata possibile senza la collaborazione di amici e amiche di vaste letture che mi hanno segnalato testi da loro incontrati.
Ringrazio Guido Armellini, Cinzia Cimatti, Carla Mazzoni, Elettra Nerbosi, Donatella Pannacci, Vittoria Ravagli e tutte/i coloro che mi hanno dato suggerimenti e attenzione.

Paola Elia Cimatti
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Per informazione



Far crescere un bambino con albinismo. Una guida per i primi anni
"Raising a child with albinism. A gude to the early years". NOAH

Siamo solo noi
"Siamo solo noi" di Margherita De Bac

Tutto sul bianco
"I colori del nostro tempo" di Michel Pastoureau
Edizione Ponte alle Grazie

Bianco su nero
"Le civette e altre creature della notte" di Desmond Morris
Castelvecchi Editore

Azzurrina:: una leggenda italiana


Azzurrina Malatesta
Wikipedia


Azzurrina: una fiaba
"Azzurrina" di Angela Nanetti
Edizione Einaudi Ragazzi


Azzurrina e la visitatrice
"Non restate in silenzio"-pp. 68-85- di Adriana Lorenzi
Edizione Le Lettere

La diversità come chiave di lettura


L’odore dell’umano
"Il profumo" -pp.15-18, 154-159- di Patrick Suskind
Edizioni TEA


L’uomo invisibile
"L'uomo invisibile di H. G. Wells
Gruppo Editoriale Mursia
L’unico specchio della casa
"Il paese d'ottobre" di Ray Bradbury
Edizione Fantacollana Nord
Un pipistrello saggio
"Il fantastico volo di ali d'argento" di Kemeth Oppel
Piemme Edizone


La pagina bianca
"Ultimi racconti" di Karen Blixen
Adelphi Editore


Bianco, puro, bellissimo
"Il codice da Vinci" di Dan Brown
Mondadori Editore

La diversità raccontata in modo realistico


Una disgrazia per mia madre - in preparazione -
"La vita accanto" di Mariapia Veladiano
Giulio Einaudi Editore

Una luminescenza impressionante
"Nettare in un setaccio" di Kamala Markandaya
Edizione Feltrinelli

Una come me
"Come pietre nel fiume" di Ursula Hegi
Universale Economica Feltrinelli

Storia minima
"La lampada di Aladino" di Luis Sèpulveda

Sul pregiudizio
"Vita dei campi" in "Rosso Malpelo" di Giovanni Verga
Liberliber.it: testo integrale

“… dentro restavo pallido…”
"Una storia di amore e di tenenbre" di Amos Oz
Eidione Feltrinelli

L'isola dei senza colore
L'isola dei senza colore" di Oliver Sacks
Adelphi Editore

Orrore e splendore

 

Non figlio di uomo, ma degli angeli: Noè
Libro di Enoch; Apocalisse 1-14


Bianca alba mia
Madrigali di Torquato Tasso


Bionda testa forestiera
"L'isola di Arturo" di Elsa Morante
Edizione Einaudi


La bianchezza
"Moby Dick" di H. Melville
Edizione Feltrinelli
Albinismo News: capitolo 42


Orrore del bianco
"Moby Dick" di H. Melville
Edizione Feltrinelli
Albinismo News: capitolo 42

Una disgrazia per mia madre

"La vita accanto" Mariapia Veladiano   ed. Einaudi 2010


Riporto l’incipit, invitando  a leggere il romanzo.


Una donna brutta non ha a disposizione nessun punto di vista superiore da cui poter raccontare la propria storia.. Non c’è prospettiva d’insieme. Non c’è oggettività. La si racconta dall’angolo in cui la vita ci ha strette, attraverso la fessura che la  paura e la vergogna ci lasciano aperta giusto per respirare, giusto per non morire.
[…] Io sono brutta. Proprio brutta.
Non sono storpia, per cui non faccio nemmeno pietà.
[…] Mia madre si è messa a lutto quando sono nata…


Per saperne di più:
copertina libro: La vita accanto di Mariapia Veladiano Mariapia Veladiano

Il bianco di Kandinskij

"Lo spirituale nell'arte". V. V. Kandinskij. Editore SE


Il bianco è quasi il simbolo di un mondo in cui tutti i colori,
come principi e sostanze fisiche, sono scomparsi.

E’ un mondo così alto, rispetto a noi, che non ne avvertiamo il suono.
Sentiamo solo un immenso silenzio che, tradotto in immagine fisica,
ci appare come un muro freddo, invalicabile, indistruttibile,  infinito.

Per questo il bianco ci colpisce, come un grande silenzio che ci sembra assoluto.

Interiormente lo sentiamo come un non suono, molto simile alle pause musicali che interrompono, brevemente, lo sviluppo di una frase o di un tema, senza concluderlo definitivamente.

E’ un silenzio che non è morto ma ricco di potenzialità.

Il bianco è il suono di un silenzio che, improvvisamente, riusciamo a comprendere.
E’ la giovinezza del nulla, o meglio, un nulla prima dell’origine, prima della nascita.

Forse la terra risuonava così nel tempo bianco dell’Era Glaciale


Per saperne di più:
copertina libro: Lo spirituale nell'arte di V. V. Kandinskij Ascolta
 

V. V. Kandinskij

presentazione libro


Orrore del bianco

" Moby Dick". Herman Melville - cap.42

Il romanzo “Moby Dick” di Herman Melville, scritto intorno al 1850, è un grande classico della letteratura americana, tradotto in  italiano da Cesare Pavese.
Diversi films e sceneggiati ne sono stati tratti, anche se spesso utilizzando solo l’aspetto avventuroso e facendone un “western dei mari”.  Si tratta di una  narrazione epica della caccia alla balena,  ma anche di una specie di enciclopedia  che contiene una visione del mondo, con riflessioni filosofiche, teologiche e scientifiche
Questa, in sintesi, la trama: il capitano Achab  ha un solo scopo nella vita: catturare la leggendaria balena bianca  Moby Dick, che anni prima gli ha causato l’amputazione di una gamba. La caccia alla balena albina ha assunto per lui il significato di una lotta contro il Mostro degli abissi, il biblico Leviatano, il principio stesso del Male.
Seguendo l’ossessione del suo capitano, Herman Melville ha scritto le parole più impressionanti che sia possibile immaginare sulla condizione albina: un intero capitolo - il cap. 42 -  è dedicato alla “bianchezza”, che esalta  e amplifica in chi ne è portatore sia i caratteri sublimi che quelli orribili, risvegliando  le immagini di bellezza e di terrore  che la sua cultura gli aveva trasmesso.

Propongo alcune citazioni significative.  (n.d.r.).


In molti oggetti naturali, la bianchezza aumenta e raffina la bellezza, come se le impartisse qualche sua speciale virtù: come nei marmi, nelle camelie e nelle perle. […]
 

Ma ci sono altri casi, in cui la bianchezza perde completamente quella strana aggiunta di sublimità che l’informa nel cavallo bianco e nell’albatro.
In un uomo albino, cosa c’è che ripugna in modo così particolare e spesso offende l’occhio, tanto che a volte egli è aborrito persino da amici e familiari. E’ la bianchezza che lo fascia e che si esprime nel nome che porta. L’albino non è meno ben fatto degli altri, non ha alcuna sostanziale deformità, eppure basta quella bianchezza che lo copre tutto a renderlo, chissà perché, più orribile del più orrendo aborto. Come spiegarlo?[…]

“E’ questa qualità inafferrabile che rende l’idea della bianchezza […] capace di accrescere quel terrore fino all’estremo. Ne sono prova l’orso bianco polare e lo squalo bianco dei tropici: cos’altro se non la loro bianchezza soffice e fioccosa li rende quegli orrori ultraterreni che sono?[...]
Forse, con la sua indefinitezza, la bianchezza adombra i vuoti e le immensità crudeli dell’universo, e così ci pugnala alle spalle col pensiero dell’annientamento mentre contempliamo gli abissi bianchi della via lattea? Oppure la ragione è che nella sua essenza la bianchezza non è tanto un colore, quanto l’assenza visibile di ogni colore e nello stesso tempo l’amalgama di tutti i colori, ed è per questo motivo che c’è una vacuità muta, piena di significato, in un gran paesaggio di nevi, un omnicolore incolore di ateismo che ci ripugna? [...]
E, andando  ancora oltre, ricordiamo che il cosmetico misterioso che produce tutte le tinte del mondo, il gran principio della luce, rimane sempre in se stesso bianco e incolore, e se operasse sulla materia senza mediazione, darebbe a ogni oggetto, anche ai tulipani e alle rose, la sua tinta vuota. [...]
E di tutte queste cose, la balena albina era il simbolo.



 Per saperne di più:
copertina libro: Moby Dick di H. Melville  Herman Melville